In una pandemia, per qualsiasi governo il problema più grande è combinare le evidenze scientifiche con le rilevanze sociali:

1) le prime sono verità spesso di natura statistica, quindi dis-confermabili;

2) le seconde sono verità di natura sociale con un grado di complessità, di variabilità e di contingenza altissimo.

Ricordo che l’operazione di armonizzare le “evidenze” con le “rilevanze” si chiama “compossibilità” che è il modo attraverso il quale in una qualsiasi relazione A/B si rimuovono tutte le contraddizioni possibili. Quando in una pandemia le contraddizioni tra scienza (evidenze) e società (rilevanze) non sono rimosse, allora sono guai. E’ in questo clima pandemico, dove di certo le contraddizioni non mancano, che ha visto la luce il mio ultimo libro L’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità (Nexus edizioni, Padova, 2020).

L’evidenza, in medicina, è una “nozione chiave” che, fino ad ora, è stata proposta sostanzialmente come una verità operativa di indiscutibile valore e alla quale subordinare qualsiasi scelta clinica. A scanso di equivoci sia subito chiaro che, pur con tutti i difetti, senza evidenze scientifiche non si avrebbe una medicina scientifica, i medici e gli altri operatori brancolerebbero nel buio, i malati sarebbero curati peggio, e alla fine nessuno in questa società si fiderebbe della medicina scientifica. Quindi, sul valore paradigmatico dell’evidenza scientifica, non si discute.

Quello su cui invece si dovrebbe discutere è di che razza di verità si tratti, di come dovrebbe essere usata o non usata, e quindi degli inconvenienti che essa comporta, dei suoi usi e dei suoi abusi, dal momento che, attraverso le evidenze, si sospendono le libertà personali, si blocca il mondo, si decidono le possibilità di sopravvivenza dei malati, si impongono trattamenti sanitari, ecc.

Insomma, nel mio libro sostengo che le evidenze scientifiche, essendo “verità convenzionali”, non sono quello che si pensa – cioè verità apodittiche – ma esattamente il contrario, cioè verità paraconsistenti: verità che quando hanno a che fare con certe singolarità possono dire tutto e il contrario di tutto. Per i loro limiti le evidenze scientifiche dovrebbero essere usate sempre dentro relazioni, quindi sempre in due: il medico e il malato, la scienza e la politica, la scienza e la società.

Purtroppo nella pratica le evidenze non sono mai usate nelle relazioni con gli altri, ma sono usate come imperativi tassativi. In quanto tali, finiscono per essere delle verità scientifiche usate dalla politica quali giustificazioni per revocare a fin di bene delle libertà, cioè per imporre dei trattamenti o delle restrizioni. La giustificazione principale è quella della necessità. Se l’evidenza è vera allora è necessario fare quello che essa prescrive di fare, sapendo che una cosa se è necessaria non può non essere fatta.

I no vax veri, quelli che rifiutano i vaccini e quindi la profilassi, che per me sono letteralmente degli ignoranti – cioè coloro le cui convinzioni sono dettate dall’ignoranza – sono una esigua minoranza, esattamente come i cosiddetti “negazionisti“. La maggior parte di coloro che passano per no vax o negazionisti, in realtà, sono perfettamente persone del nostro tempo che rivendicano molto semplicemente un diritto elementare peraltro sancito dalla Costituzione: la medicina e la politica, per decidere sulla mia vita, prima di seguire delle evidenze devono prima sentire la mia opinione personale.

E’ pensando a costoro che in una legge dello stato (L. N. 219, 22 dicembre 2017) si è stabilito l’obbligo di sottoporre qualsiasi trattamento sanitario, vaccini compresi, al consenso libero e informato della persona interessata. L’errore politico che io vedo nei promotori delle manifestazioni anche recenti spacciate dai media per no vax, no mask e per negazionisti è nella loro forte ambiguità politica, che a parte certi messaggi deliranti commette l’errore di non proteggere adeguatamente il loro vero obiettivo politico: la difesa costituzionale delle libertà.

Personalmente farei delle manifestazioni pubbliche non contro i vaccini, non contro le mascherine, ma per decidere soprattutto in ogni ospedale, in ogni ambulatorio, e quindi in una pandemia, come accordare evidenze e rilevanze, come accordare verità e opinioni, cioè come usare il consenso informato. Lottare per il consenso informato già disciplinato dalla legge non è lottare semplicemente per la libertà, ma – siccome ci ammaliamo e abbiamo bisogno della medicina – per far dialogare la verità con la libertà e per permettere al cittadino di partecipare con le sue rilevanze e le sue opinioni alla costruzione e all’uso delle verità scientifiche.

Il consenso informato è quindi l’unica strada attraverso la quale il cittadino può far fronte alle ambiguità e alle incertezze delle evidenze scientifiche, cioè all’invadenza della scienza e al suo mai superato paternalismo. Nel mio libro, prima citato, la soluzione che propongo per risolvere i tanti problemi dell’evidenza è usare le verità scientifiche non in modo convenzionale ma in modo pragmatico, intendendo per “pragmatico” la capacità di mettere a confronto le evidenze scientifiche soprattutto con il valore irriducibile della singolarità.

Ma l’uso pragmatico delle evidenze scientifiche di cui parlo nel libro alla fine non è nulla di più che consenso informato. Pretendere il consenso informato non è solo pretendere un diritto politico alla libertà, ma un diritto epistemico ad avere la verità più vera, perché in medicina la verità più vera è quella che funziona e che il malato dice essere vera. Pretendere in medicina come diritto la verità più vera è come difendere il diritto ad avere la nostra singolarità. Nessuna evidenza scientifica sarà mai veramente vera se non fa i conti con la nostra singolarità.

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