La morte della giudice della Corte suprema Ruth Bader Ginsburg avviene in un momento molto delicato per gli Stati Uniti. Mentre è già aspra la battaglia per la nomina del suo successore, il rischio è un ulteriore deterioramento della democrazia americana.

di Federiga Bindi (Fonte: lavoce.info)

Chi era Ruth Bader Ginsburg

È morta Ruth Bader Ginsburg, iconica giudice della Corte Suprema americana, meglio conosciuta come Rbg o Notorious Rbg, da quando aveva cominciato a scrivere dissenting opinions a commento delle decisioni della corte alle quali si era opposta. La morte di Ginsburg avviene in un momento delicato della democrazia americana e rischia di avere conseguenze importanti sul futuro del paese.

Allieva di Harvard e Columbia Law School quando le donne si contavano sulla punta delle dita, Ginsburg proprio perché donna non fu assunta da nessun studio legale. Finì quindi a insegnare, alla Rutgers University, dove inaugurò il corso Women and the Law. Nel 1972, fondò il Women’s Rights Project all’interno di Aclu (American Civil Liberties Union), destinato a divenire parte attiva del movimento contro le discriminazioni di genere. Su trecento casi legali sostenuti, sei arrivarono alla Corte suprema e cinque furono vinti da Ginsburg, riuscendo finalmente a ottenere l’immediate scrutiny, uno scrutinio costituzionale più stretto sulle questioni di discriminazione di genere.

Secondo Ruth Bader Ginsburg, l’uguaglianza di genere è costituzionalmente protetta dagli stessi dispositivi che proteggono le minoranze etniche, in particolare la equal protection clause contenuta del XIV Emendamento e il Title VI del Civil Rights Act del 1964. Era un modo di ragionare completamente nuovo e lei stessa affermò che quando argomentava di fronte alla Corte suprema (di cui ancora non faceva parte) si sentiva come una maestra di asilo che doveva spiegare una cosa nuova.

Nel 1980 fu nominata da Jimmy Carter alla District of Columbia Court of Appeals, dove è rimasta fino a quando, nel 1993, Bill Clinton la nominò giudice della Corte suprema, la seconda giudice donna della Corte. Con il ritiro di Sandra O’Connor nel 2006, e l’acuirsi della tendenza conservatrice della Corte, Ginsburg da consensus maker ha cominciato a scrivere dissenting opinions progressiste (“liberal”), tra cui quella su Ledbetter vs Goodyear, che ha portato poi il Congresso ad approvare il Lily Ledbetter Fair Play Act, che vieta discriminazioni di genere in termini di remunerazione, la prima legge firmata da Barack Obama.

La battaglia sulla nomina del nuovo giudice

La nomina di un nuovo giudice della Corte suprema spetta al presidente Usa, ma deve essere ratificata dal Senato. Neanche due ore dopo l’annuncio della morte di Ginsburg, il leader del Senato, il repubblicano Mitch McConnell, ha annunciato che la camera alta americana è pronta a considerare una nomina di Trump, nonostante il desiderio espresso sul letto di morte dalla stessa Ginsburg che sia il nuovo presidente a indicare il suo successore. E, soprattutto, nonostante nel 2016 i repubblicani si fossero opposti a una nomina a fine mandato da parte di Barack Obama, dopo la morte del giudice conservatore Antonin Scalia.

Per eleggere un giudice costituzionale servono 51 voti e i senatori repubblicani sono 53. Le senatrici repubblicane Lisa Murkoski e Susan Collins hanno dichiarato la loro contrarietà a un voto prima delle elezioni. Ma anche se alla fine fossero tre i senatori a non votare il giudice nominato, si avrebbero comunque i 50+1 voti necessari. Infatti, il vicepresidente Usa Mike Pence, che di diritto è il presidente del Senato, già più volte ha fatto da tie breaker, rompendo una lunga tradizione che portava i vicepresidenti ad auto-esimersi da questa prerogativa.

La nomina alla Corte suprema è a vita, quindi con la scelta del nuovo giudice Trump potrebbe assicurare alla sua base conservatrice, quella evangelica in modo particolare, una maggioranza conservatrice destinata a durare decenni. Considerata la rilevanza della Corte suprema nel dispositivo costituzionale americano, i democratici temono che una Corte a solida trazione conservatrice riporterebbe il paese, e in particolare le libertà civili, indietro di decenni. Nel 2016, il motivo principale per cui il vicepresidente Joe Biden voleva candidarsi alla presidenza era proprio per evitare la deriva conservatrice della Corte.

Ma se anche un quarto senatore repubblicano dovesse astenersi e la nomina saltare, per Trump sarebbe forse ancora meglio perché potrebbe agevolmente trasformare la mancata nomina del nuovo giudice nell’argomento più rilevante della campagna elettorale, facendo quindi delle elezioni 2020 una questione ben più alta della sua persona: una lotta per la Corte suprema e quindi sul futuro a lungo termine del paese. Moltissimi sono i conservatori che, per dirla con Indro Montanelli, si tapperebbero il naso pur di assicurarsi una Corte suprema conservatrice. E chiaramente la disastrosa gestione del Covid-19 passerebbe in seconda linea.

Il ruolo della Corte nelle elezioni presidenziali

C’è però un altro motivo per cui la questione della Corte suprema è oggi fondamentale come non mai: il suo probabile ruolo nelle elezioni del prossimo 3 novembre. La procedura prevede che in caso di contestazioni o incertezza nel risultato, la Corte possa concedere un nuovo spoglio elettorale. Nel 2000, negando tale possibilità alla Florida, la Corte di fatto determinò la vittoria di G.W. Bush su Al Gore.

Secondo molti esperti elettorali, è verosimile che questo autunno vi saranno richieste di nuovi spogli in numerosi stati, rendendo così la Corte suprema l’arbitro finale delle elezioni. Non a caso l’ex candidato presidenziale e senatore repubblicano Ted Cruz ha subito affermato che a novembre non si può rischiare l’empasse 4 a 4.

Da tempo, Trump sta cercando di rendere difficile il voto delle minoranze etniche, afroamericani in primo luogo, che sono storicamente massicciamente democratici e che potrebbero determinare – o negare – la vittoria a Joe Biden. Per quanto quello di voto sia un diritto costituzionalmente garantito, il suo effettivo esercizio può essere limitato – e lo è stato in tutto il Sud fino al Civil Rights Act del 1964 – con espedienti diversi, ad esempio richiedendo un documento di riconoscimento con foto, che negli Usa non è obbligatorio avere, rendendo così difficoltosa l’iscrizione nelle liste elettorali.

A causa del Covid-19, poi, molti stati stanno incoraggiando il voto per corrispondenza. Stati chiave come il Colorado spediscono a casa i moduli a tutti gli elettori. In linea generale, i repubblicani sono più propensi a negare la pericolosità del coronavirus e quindi andranno a votare di persona in numeri superiori ai democratici. Inoltre, voteranno per corrispondenza gli “essentials”, cioè le persone che non possono permettersi di saltare un giorno di lavoro per stare in fila per votare. Sono, nella stragrande maggioranza, minoranze etniche, tendenzialmente democratiche. Il risultato è che i voti per corrispondenza saranno democratici in percentuale assai maggiore rispetto al voto espresso di persona.

A rendere le cose ancora più complicate, i voti per corrispondenza vengono generalmente conteggiati dopo quelli espressi di persona, di conseguenza avremo due risultati: quello della notte del 3 novembre e quello globale, che arriverà dopo qualche giorno, con evidente rischio di contestazione da parte dei repubblicani. In questo scenario Trump, che non a caso da tempo tenta di delegittimare il voto per corrispondenza, avrà facile gioco a dire che le elezioni sono state truccate, a non accettare il risultato e, quindi, a chiamare in causa la Corte suprema.

Se la prospettiva del dopo voto era già problematica, oggi lo scenario si incupisce ancora di più. Non è escluso che, vedendosi perdente, Trump chiami “il suo popolo” a difenderlo, popolo che mentre i democratici compravano mascherine, acquistava armi da fuoco. Paradossalmente la morte di Ruth Bader Ginsburg, una delle massime paladine dei diritti civili americani, rischia purtroppo di portare a un drammatico ulteriore deterioramento della democrazia Usa.

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