Da sempre l’emergenza è un gran bel business. Incredibilmente remunerativo, perché l’urgenza inderogabile di una risposta da parte dell’autorità pubblica permette non soltanto di eludere i vincoli delle procedure ordinarie, e così di cancellare la valenza dei controlli, ma anche di inondare i beneficiari di risorse rapidamente disponibili, come una manna monetaria dal cielo. Condizioni che somigliano a una sorta di “manuale d’uso” della corruzione senza freni.

Di fronte all’emergenza, infatti, saltano i parametri di autorizzazione della spesa, si fanno flessibili anche i più rigorosi vincoli di bilancio. Al tempo stesso, i funzionari pubblici chiamati a esercitare quei poteri straordinari sono autorizzati a impiegare quelle risorse con modalità che, anche quando sconfinano nell’abuso o nel latrocinio, hanno alte probabilità di restare invisibili e impunite.

E’ tale l’attrattiva della gestione straordinaria che alcune emergenze possono essere “programmate” ad arte, magari ostruendo deliberatamente il corso delle procedure ordinarie, vedi il caso di tante manifestazioni sportive o esposizioni universali, oppure coltivate premurosamente per decenni, basti guardare alle molte inesauribili crisi dei sistemi locali di raccolta e gestione dei rifiuti. Di tanto in tanto piombano come un castigo divino anche tragedie reali, materiali, dolorosissime: alluvioni, frane, siccità, terremoti, carestie, catastrofi imprevedibili che suscitano le preoccupazioni e la sofferenza di molti, ma nello stesso tempo ridestano gli appetiti di pochi.

La pandemia indotta dalla diffusione del virus Covid-19 ha generato nell’arco di poche settimane, con brusche accelerazioni nei diversi paesi, una crisi sanitaria di dimensioni planetarie e di gravità inaudita. Una condizione drammatica e a tratti fuori controllo, in grado però – in parallelo alla tragica conta delle vittime – di elevare all’ennesima potenza anche le cifre dei profitti attesi dai soggetti più rapidi e intraprendenti nel ritagliarsi uno spazio di mercato all’interno di questo nuovo “business dell’emergenza”.

In Italia, come prevedibile, le cronache giudiziarie hanno già iniziato a disegnare uno spaccato desolante dell’armata Brancaleone di aspiranti impresari e faccendieri che, svilendo il lavoro di tanti imprenditori in buona fede, hanno sgomitato a suon di fideiussioni taroccate e di millantati approvvigionamenti dalla Cina per accaparrarsi le forniture per i prodotti medicali e il materiale sanitario di prima e urgente necessità, affidate a pioggia con prezzi nel frattempo schizzati alle stelle, senza negoziazione né trasparenza.

Naturalmente le relazioni, i contatti, le entrature politico-burocratiche possono fare la differenza quando ci si confronta con meccanismi decisionali tanto arbitrari quanto aleatori. Non sorprende che nel campionario di società finite nei guai ci sia quella di import-export di un’ex-presidentessa della Camera, così come quella appartenente al cognato – e per una piccola quota alla moglie – del Presidente della Lombardia. E’ significativa la giustificazione dell’allora direttore del Centro acquisti regionale: “Qualunque impresa capace di fornire dispositivi di protezione individuale, e che si era riconvertita per farlo, veniva presa in considerazione”, visto che ci si muoveva in uno stato “quotidiano” di necessità.

Nel tentativo di tracciare un bilancio, l’Autorità anticorruzione ha passato in rassegna la spesa pubblica per la gestione della fase critica tra marzo e aprile 2020, pari a circa 5,8 miliardi di euro, fondi assegnati per quasi il 93 per cento dei casi tramite meccanismi (affidamento diretto, procedure negoziate) che non prevedono bandi o gare ad evidenza pubblica, quindi senza alcun confronto competitivo.

Non è un segnale confortante osservare come il prezzo pagato dagli ospedali per la stessa tipologia di prodotto presenti oscillazioni incredibili: la stessa mascherina chirurgica è stata pagata da un minimo di 0,4 a un massimo di 1,82 euro, il medesimo ventilatore polmonare da 6950 a 38200 euro, lo stesso copricalzare da 0,03 a 1,28 euro – quaranta volte tanto. Se si potesse rappresentare l’eden della corruzione, probabilmente avrebbe queste sembianze.

In attesa dei forzieri di denari sonanti assegnati all’Italia dal Recovery Fund, è bene far squillare fin d’ora tutti i campanelli d’allarme a nostra disposizione. Non va sottovalutato infatti il rischio di alimentare i focolai di corruzione sistemica – già ben radicati nel nostro paese – a seguito del “combinato disposto” tra i 209 miliardi piovuti dall’Europa e un’applicazione sconsiderata del “decreto semplificazioni”.

Da un lato, dopo anni di vacche magre, l’incoraggiamento alla pratica di una gestione allegra e distratta delle finanze pubbliche, precondizione per tornare a strapagare prestazioni e forniture, magari assicurando un ritorno al decisore benevolente sotto forma di bustarella. Dall’altra la conversione in legge di un decreto che dietro la rassicurante formula delle “semplificazioni” nasconde una deregulation selvaggia degli appalti.

Almeno fino al 31 dicembre 2021 – salvo probabili proroghe – sarà cristallizzata una condizione di emergenza permanente nella gestione degli investimenti, attraverso l’attribuzione di poteri eccezionali ai responsabili delle stazioni appaltanti impegnate contro la crisi sanitaria ed economica, la moltiplicazione dei commissari straordinari di nomina governativa, la generalizzazione dell’affidamento diretto e dell’assegnazione dei contratti pubblici senza gara.

Si prefigurano per i malintenzionati occasioni allettanti di profitto illecito, tali da non lasciare indifferenti le stesse organizzazioni mafiose. Queste ultime possono presentarsi sia come dirette beneficiarie della pioggia di finanziamenti, mediante emissari diretti o imprese colluse, che in qualità di agenti “regolatori” di quelle reti di scambi e relazioni occulte tra i “colletti bianchi” che – c’è da temere – accompagneranno lo sviluppo di meccanismi corruttivi nell’attuazione dei 557 progetti, comprensivi di tante “grandi opere pubbliche”, secondo la “lista provvisoria” predisposta dal governo italiano e oggetto di una misteriosa fuga di notizie.

Di qui la comprensibile preoccupazione della direttrice di Europol, la quale sottolinea che “i fondi per la ricostruzione sono già presi di mira dalle organizzazioni criminali e lo saranno ancora più”.

Non è di consolazione, ma l’Italia, secondo epicentro della pandemia da Covid-19 in ordine temporale dopo la Cina, non è isolata neppure nel contagio di “cattive pratiche” e malaffare. Dai canali di segnalazione di potenziali illeciti gestiti dalla Ngo Transparency International sono giunti oltre 1500 segnalazioni in 60 paesi di possibili episodi di malversazioni legati ai diversi profili emergenza sanitaria: aiuti umanitari, fornitura di test e materiali, servizi di assistenza sanitaria, restrizioni di viaggi e movimenti, tutti processi di scelta pubblica inquinati dalla corruzione.

Il monito lanciato dalla coordinatrice del progetto di Transparency è drammaticamente attuale, e tale rischia di restare a lungo: “Covid-19 non è solo una crisi sanitaria ed economica. È una crisi di corruzione. (…) Le persone più vulnerabili sono quelle che sono state colpite più duramente, compresi gli operatori sanitari in prima linea. I governi falliscono davanti ai loro cittadini quando accedere al supporto e ai servizi di cui le persone hanno bisogno diventa ancora più difficile a causa della corruzione”.

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