Il 16 settembre 1970 scompariva a Palermo Mauro De Mauro, fuoriclasse del giornalismo de L’Ora, storico quotidiano del pomeriggio. Esperto cronista di fatti di mafia con un passato oscuro da giovane militante della X Mas di Junio Valerio Borghese, De Mauro scompare nel centro del capoluogo siciliano senza lasciare traccia. In breve tempo la sua storia diventa emblematica, talmente complicata e tortuosa da diventare un caso. Anzi “il caso”, Il caso De Mauro, come il titolo del libro di Giuseppe Pipitone, uscito per Editori Riuniti nel 2012, di cui pubblichiamo un estratto. È il capitolo in cui si ricostruiscono gli attimi precedenti della scomparsa del cronista, ricostruiti sulla base degli atti giudiziari e le dichiarazioni di testimoni. Cinquant’anni dopo è rimasto poco altro. Colpa dei depistaggi che hanno manipolato e sottratto decine di elementi. Il processo sul caso De Mauro si è concluso nel 2011 quando la corte d’Assise di Palermo ha assolto Totò Riina, all’epoca l’unico sopravvissuto del gruppo mafioso che avrebbe organizzato il rapimento. A uccidere De Mauro, infatti, non fu – con tutta probabilità – soltanto Cosa nostra. Anzi il delitto del giornalista sarebbe maturato in contesto diverso, con i boss mafiosi che interpretarono solo il ruolo di killer. L’inchiesta della procura di Pavia sull’omicidio di Enrico Mattei e quella dei pm siciliani hanno ricostruito come verosimile la pista che collega la scomparsa di De Mauro all’eliminazione dello storico presidente dell’Eni. Ai due delitti parrebbe essere legato anche l’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Per il caso De Mauro, comunque, Riina fu assolto anche in Appello e in Cassazione. “La verità è stata massacrata da un massiccio e mirato depistaggio“, scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza.

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Viale delle Magnolie è una strada nel cuore dei nuovi quartieri residenziali della città di Palermo. Alle spalle c’è viale Regione Siciliana, la circonvallazione tradizionalmente imbottigliata che attraversa completamente Palermo e la col- lega all’autostrada. Parallela si estende invece viale Lazio, un vialone famoso soprattutto per la strage a colpi di mitra in cui Bernardo Provenzano si sarebbe guadagnato l’appellativo di “trattore”. Trasversalmente s’incrocia invece via Sciuti, lunga arteria che conduce direttamente in centro, per mezzo secolo residenza invernale di don Vito Ciancimino, vero e proprio demiurgo di questa nuova sterminata porzione cittadina. È una zona definita come residenziale, e che, in quanto tale, ha la pretesa di apparire elegante: la testimonianza di come si è voluta intendere la modernità nella Palermo degli anni ’60 e ’70. Altrove si chiamava “boom economico” o “espansione edilizia”, qui è passato alla storia semplicemente come “il sacco”, il sacco di Palermo. Si è articolato in due momenti. Nel primo vennero abbattute in silenzio una serie di ville in stile Liberty che si diceva fossero il vanto della città, e, contemporaneamente (guarda caso) vennero rilasciate circa quattromila licenze edilizie a quattro o cinque semplici carpentieri, cioè prestanome diventati ricchissimi. E dopo aver sfregiato il volto della città, si pensò quindi di ricucirlo in maniera abominevole. Nel secondo momento del sacco, infatti, al posto delle rovine fumanti delle fiabesche ville abbattute, s’iniziarono ad innalzare palazzoni su palazzoni, con dieci, venti o trenta piani, separati da vialoni che s’incrociano disordinatamente, in cui ai già rari segnali stradali si dà la stessa valenza dei soprammobili. Desolati scheletri d’arbusto, che pochi giorni all’anno diventano alberi, spuntano dagli angoli di grigi marciapiedi a pochi metri dai bassi muretti di cinta delle aree condominiali. In quasi tutte le strade poi le buche sono abbondanti e profonde, difficili da scorgere la sera quando l’illuminazione elettrica è fioca e intermittente.

Anche viale delle Magnolie è una strada in penombra e la Bmw blu scuro deve evitare probabilmente un paio di crateri lungo l’asfalto prima di parcheggiarsi affiancata al marciapiede di fronte al civico 58. Ne scende un uomo alto, bruno, con un viso quadrato e una sigaretta accesa tra le labbra. Il fumo azzurrognolo gli scivola via dalle narici, che sono curiosamente asimmetriche: una delle due è più grande dell’altra, costretta ad ingrandirsi da una profonda cicatrice all’altezza della curvatura del naso, che quindi appare incredibilmente adunco. L’uomo si chiama Mauro De Mauro, ha origini pugliesi e accento napoletano, è a Palermo da più di vent’anni, e da undici lavora in un piccolo giornale della sera che all’epoca vendeva tra le 15 e le 20 mila copie: si chiama L’Ora.

L’uomo con il naso incredibilmente adunco scende dalla macchina trascinandosi dietro una gamba che appare evidentemente più rigida dell’altra: una sorta di asimmetria che dal naso si estende anche alla claudicante camminata. Un’asimmetria che sarebbe stata provocata nientemeno che da un tronco d’albero segato che gli sbarrò la strada anni prima: non lo vide perché era notte e si andò a schiantare con l’auto. Così almeno aveva raccontato in giro. Qualcuno più sospettoso degli altri però diceva che non era vero, che De Mauro aveva quella gamba rigida e quel naso ricucito perché era stato fascista, amico dei tedeschi, e un giorno i partigiani gli avevano dato una bella lezione a suon di legnate. Forse era vero. O forse erano chiacchiere. In realtà a molti tutto questo semplicemente non importava: lo conoscevano da vent’anni e per loro Mauro è ormai “zoppo” per natura.

Così come è “naturalmente” un cronista fuoriclasse: «Uno con le corna dure» come si diceva a Palermo, testardo, determinato, ed incredibilmente efficace. In effetti Mauro De Mauro è in quel periodo uno dei migliori cronisti attivi in città: attento, preciso e con una facilità di scrittura senza pari.

Anche quel giorno, quel mercoledì 16 settembre del 1970, prima di parcheggiare in viale delle Magnolie all’altezza del civico 58, Mauro ha lavorato sodo. La redazione dell’Ora è in un palazzone a tre piani ad angolo tra piazzetta Napoli e piazzale Ungheria, dove Mauro è entrato alle 7 meno un quarto del mattino, puntuale come sempre. Ha iniziato a lavorare al supplemento sportivo, settore al quale, inspiegabilmente, lo hanno spostato da qualche mese: «Per rilanciare lo sport» si dirà dopo.

A mezzogiorno ha controllato la prima edizione del giornale, ha fatto qualche cambiamento, e poi è andato in tipografia, dal proto, a controllare la seconda edizione. Poi è andato a Mondello, allo stabilimento “La Torre”, a fare un bagno e a mangiare un boccone. Nonostante sia settembre inoltrato a Palermo infatti fa ancora caldo, molto caldo. Un caldo afoso, estivo, un caldo che toglie il ato perché lo scirocco continua a spazzare con forza la città, fino a sera, dopo che il sole è tramontato. Nel pomeriggio De Mauro è andato anche dal barbiere, ha chiesto di tagliare i capelli, ma c’era troppa gente, allora è tornato in redazione. In mano – lo avrebbe raccontato poi il barbiere – stringeva una busta gialla, rettangolare, di quelle che chiamano di “tipo commerciale”, larghe circa trenta centimetri e alte più o meno venti. Alle sette di pomeriggio ha chiamato a casa annunciando alla moglie Elda un possibile ritardo. Verso le otto e mezza ha lasciato gli stanzoni gonfi di fumo dell’Ora. È salito sulla sua Bmw blu scuro e ha iniziato a dirigersi verso casa, verso viale delle Magnolie, dove da due anni abita con la famiglia. Prima però si è fermato in via Pirandello, al Bar Spatola per comprare tre pacchetti di sigarette – le sue Nazionali senza filtro – due etti di caffè e una bottiglia di vino. Non vino normale, ma vino di qualità, vino francese, come si chiamava all’epoca lo chardonnay.

Comprati caffè, vino e sigarette, arriva in via delle Magnolie poco dopo le 21, nello stesso momento in cui arrivano la figlia con il fidanzato, Salvo Mirto. Sono felici Franca e Salvo: tra due giorni infatti devono sposarsi e a casa De Mauro sono tutti in brillazione per il matrimonio. I due ragazzi vedono Mauro appena entrati nell’androne del palazzo, schiacciano il tasto per chiamare l’ascensore, e aspettano. Dopo pochi minuti, però, Mauro non è ancora entrato. Franca fa qualche passo verso il portone per vedere che ne avesse fatto il padre. In controluce riesce a scorgere tre uomini che si sono materializzati dentro la Bmw blu scuro: al volante sembra esserci di nuovo lui, Mauro, che quindi è di nuovo rientrato in macchina. «Amuninni», andiamocene, grida l’ombra di un uomo che ora occupa il sedile del passeggero, quello dove c’erano il caffè, il vino francese, le sigarette, e forse anche quella busta gialla rettangolare. Mauro gira la chiave della macchina, mette in moto e parte facendo stridere le gomme sull’asfalto. Franca guarda la macchina partire, guarda suo padre che fissa concentrato la strada senza neanche farle un cenno di saluto, poi torna sui suoi passi e va a prendere l’ascensore. Sarà una cosa di pochi minuti – pensa –, un’assenza improvvisa come capitava spesso: a breve suo padre sarebbe tornato per la cena. In caso contrario avrebbe sicuramente avvertito, o citofonato. C’è buio e probabilmente non l’ha neanche vista, lì davanti il palazzo, concentrato com’era a guidare. E poi quegli uomini sembrava conoscerli. Lo scirocco nel frattempo si è calmato ma fa ancora caldo. Sono le 21 e 10, al massimo le 21 e 15 di mercoledì 16 settembre 1970. Nessuno ancora lo sa ma è appena sparito nel nulla, in un attimo, Mauro De Mauro, il pezzo da 90 del giornalismo palermitano, il più chiacchierato, forse il più invidiato cronista della città. «Amuninni» gridato da un’ombra, lo stridore delle gomme che mangiano l’asfalto, e poi il silenzio, neanche rotto dallo scirocco che ha allentato il suo soffio: così scompare un giornalista a Palermo.

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