Konrad Steffen, detto “Koni” dai suoi discepoli, ha dedicato la vita a misurare i ghiacciai della Groenlandia malati di riscaldamento globale. E in un crepaccio pieno d’acqua è morto l’8 agosto scorso a 68 anni, non distante dallo Swiss Camp, le due tende rosse che egli stesso fondò a quota 1100 metri sulla costa occidentale della Groenlandia nel 1990 come spartana stazione meteo e di ricerca scientifica.

In questi ultimi anni la fusione della grande calotta artica è in accelerazione e contribuisce per circa un millimetro all’anno alla crescita di livello marino globale. Se fondesse tutta farebbe aumentare le acque di sette metri. Di questo era assai preoccupato Steffen, che, nato nel 1952 e formatosi scientificamente a Zurigo, era approdato dalle Alpi alle Montagne Rocciose, dove negli anni Novanta divenne docente di glaciologia e climatologia all’Università del Colorado e responsabile di progetti di ricerca nell’artico.

Dal 2012 era tornato in Svizzera come direttore del prestigioso Istituto federale di ricerca sulle foreste la neve e il paesaggio (Wsl), e per gli eccellenti meriti scientifici ricopriva ancora questa carica nonostante fosse già in pensione. Ogni anno non mancava di passare alcune settimane allo Swiss Camp con i suoi colleghi e studenti di tutto il mondo, vivendo in condizioni severe, al freddo e senza comodità, con l’unico obiettivo di svolgere osservazioni scientifiche sulla neve e il ghiaccio sempre più minacciati dai calori inediti di questa epoca industriale.

Era un uomo anche aperto e generoso, mai seduto in cattedra ma vero mentore in grado di passare dalle equazioni alla pala da neve, e che ha sempre cucinato per tutti sul fornelletto a gas della piccola tenda-cucina persa tra le bufere artiche. E’ morto sul campo, anzi nel suo “suo” campo glaciale, tradito da un banale scivolone. Per quanto i ricercatori siano in genere più attenti degli alpinisti, seguano protocolli di sicurezza più rigidi e razionali, si sa che gli incidenti possono capitare anche ai più esperti.

Ad eccezione delle pionieristiche esplorazioni polari, non sono per fortuna molti i caduti in missione scientifica, ma voglio ricordare il meteorologo svedese Finn Malmgren disperso sul pack nel 1928 dopo il naufragio del dirigibile Italia di Umberto Nobile e l’ingegnere ticinese Antonio Tonini, che proprio come Steffen il 25 giugno 1860 cadde in un crepaccio del Ghiacciaio dell’Agnello in Val di Susa durante una campagna di rilievi topografici.

E ancora, in tempi recenti, il ricercatore italiano dell’Università di Messina Luigi Michaud, morto in Antartide nel 2014 in una missione subacquea, e il glaciologo scozzese Gordon Hamilton, trapiantato negli Stati Uniti all’Università del Maine, e pure lui precipitato in un crepaccio con una motoslitta nel 2016 sempre in Antartide.

Pensate dunque a loro e a Koni Steffen quando parlate di riscaldamento globale: alcuni dei tanti nomi ignoti di scienziati impegnati nella professione e nella vita ad avvertire il mondo sui rischi che corre quando distrugge la natura. Persone oneste, miti e competenti come tante, spesso infangate dal becero negazionismo climatico di gente che sta seduta comoda all’osteria a discettare di dati, di rischi e di fatiche che non conosce.

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