Cultura

Andrea Camilleri e il suo Riccardino: la recensione

"Lo scaffale dei libri", la nostra rubrica che si occupa di recensioni settimanali, stavolta 'stravolge' il format per dedicarsi al romanzo postumo del maestro scomparso

di Davide Turrini

“Io non posso sfoggiare molta cultura, sono considerato uno scrittore di genere. Anzi, di genere di consumo. Tant’è vero che i miei libri si vendono macari nei supermercati”. L’ha voluta concludere così, Andrea Camilleri, l’epopea del suo commissario Montalbano. Ficcato dentro le pagine di Riccardino (Sellerio editore) a dialogare spesso con Montalbano stesso. Si fa chiamare “Autore” da Montalbano, anzi, addirittura si descrive così osservandosi, in un sincero delirio pirandelliano, chiaroscuri e controluce sugli antichi gloriosi fili del puparo, mise en abyme visiva dove non si sa più dove finisce il racconto ed inizia il piacere di raccontare. Autore e Personaggio però non si confondono mai, anzi. Si fronteggiano, si sfidano, battibeccano. L’Autore chiede al Personaggio di poter chiudere il libro – la serie, l’epopea, il mito – offrendo una soluzione al delitto in esame più logica e leggibile. Il Personaggio s’incaponisce nel fare di testa sua e finisce per inzuccarsi proprio con la suscettibilità e la prerogativa totalitaria dell’Autore. In sottofondo quel cruccio sincero, rovello caustico, dell’uomo di cultura – Camilleri Autore e il suo immancabile Personaggio – che grazie al genere giallo frantuma i record di vendita e viene acquistato come merce indistinta tra il ciuffo sbarazzino di un sedano e un warholiano barattolo di pomodoro. L’omicidio anzi “l’ammazzatina di Riccardino”, Riccardo Lopresti, distinto sciupafemmine assatanato, fulminato da un colpo di pistola la mattina presto in mezzo alla strada davanti ai tre amici che lo aspettano per un escursione, ha tutti i più tradizionali crismi della novella in vigatese del nostro. Forse qualcosina in meno come pulsazione, tratteggio, rifinitura dei personaggi sospettati, ma in splendida forma quando si tratta di sciorinare la lingua camilleriana. Dialetto che “infiltra” magistralmente l’italiano. Parola che avvinghia, forsenna, solca la pelle del lettore. Susseguirsi di sillabe dalle vocali spiazzanti, da possibili, traducibili assonanze. “Sistema coerente e coeso” in cui si è risucchiati sempre allo stesso modo, testimoni ignari e persuasi dalla detection quando è la lingua che scolpisce e trascina il discorso a farsi distinguere. Eleviamo a primato un termine, una parolina, che poi diventa il tutto, anche perché interseca l’invenzione stilistica e la trovata parziale del duello Autore/Personaggio. Si tratta dell’aggettivo “arragatata” che Camilleri assegna alla sua voce perduta nel fumo delle “sicarette”. Guardate che qui siamo a livelli altissimi, tipo tavole di Mosè della scrittura. Quando un giallista ti stampa sulla scrivania del ricordo il “suo” lessico, posizionando il naturale interesse per la ricerca del colpevole dentro ad uno dei cassetti più in basso, siamo vicini alla perfezione. Montalbano in Riccardino subisce comunque l’impossibile. Teso, confuso, perfino soggetto ad incubi, deve confrontarsi di continuo con l’Attore che lo interpreta nella serie tv, con il garbuglio delittuoso che non si riesce a sgarbugliare, e con quelle telefonate impellenti dell’Autore che vuole modificare a tutti i costi il corso degli eventi narrati. Così l’ultimo romanzo di Camilleri, il romanzo postumo, quello scritto nel 2006, appoggiato in un cassetto della casa editrice, da pubblicare solo dopo la sua morte, diventa un duello tra creatura e creatore decisamente surreale, sardonicamente malinconico, immancabilmente appagante. Doveva essere un testamento, ma Riccardino è una giostra letteraria che potrebbe non concludersi mai. Voto: Non giudicabile, ovviamente.

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