Quindici mesi fa mi sono trasferito negli Usa. Assieme ai bagagli ho portato con me tante opinioni e aspettative sulla questione della razza. Il razzismo è orribile – questo lo sapevo. Ma nicchiavo o trovavo addirittura fastidiose alcune pretese degli attivisti americani: aggiungere una striscia nera e una marrone alla bandiera arcobaleno, per esempio, mi sembrava stupido. Abbattere statue di personaggi simbolo di oppressione (tema che ha scatenato in Italia un’indignazione leggermente sproporzionata) anche. E così via, con opinioni in cui molti di voi si potranno ritrovare.

Poi sono piombato in una realtà socialmente segregata di cui faccio parte come privilegiato. Il mio essere antirazzista non basta a cancellare vessazioni che si protraggono da secoli. Vedo ovunque le disparità economiche e sociali fra bianchi e persone di colore, da cui io stesso traggo beneficio pur senza volerlo, ogni volta che un controllore in metro chiude un occhio se ho sbagliato a fare il biglietto o il poliziotto non fa caso se attraverso col rosso. Non ne ho colpa. Ma sono in qualche modo responsabile?

Non lo so. L’ingiustizia è ovunque e la complessità paralizza. Qualche flebile risposta, però, l’ho dovuta trovare. Dopo l’omicidio di George Floyd e l’orribile video, quando le marce di Black Lives Matter sono passate sotto casa ho dovuto scegliere, mettere in pausa i dubbi e marciare con loro, per loro. Il giorno dopo ho preso la penna in mano e messo ordine fra i miei pensieri. Condivido alcune di queste riflessioni qui, sperando che possano essere d’aiuto.

1. Sono bianco e non sono razzista. Non posso capire il razzismo. Non posso neanche riconoscerlo, a volte, perché ho avuto la fortuna di non esserne mai stato vittima. Certo, sono stato a volte trattato con sufficienza in quanto italiano, ma non è la stessa cosa. Quindi evito di “spiegare” il razzismo a chi lo vive sulla sua pelle, anche quando non sono pienamente convinto. Il fatto che io abbia qualche dubbio intellettuale vale meno del sentimento di chi subisce il razzismo. Al limite, se interpellato, offrirò i miei spunti.

2. Sono gay. So cosa voglia dire essere discriminati. Non so cosa voglia dire il razzismo nello specifico, ma grazie alla mia esperienza posso cercare di immedesimarmi. Chiunque, anche non gay, avrà vissuto qualche ingiustizia. Il ricordo di quell’ingiustizia può aiutare a empatizzare con l’esperienza, diversa, di altri.

3. Non sono completamente sicuro di sostenere tutte le rivendicazioni di attivisti neri e di colore. Ma sai che c’è? Che dei miei dubbi, a gente che dallo Stato ha ricevuto quasi sempre repressione e rispetto mai, non gliene può fregare di meno. Non hanno il tempo per aiutarmi a risolvere i miei dubbi. E io non posso – non devo – fargli perdere tempo. Accetterò l’incertezza e starà al loro fianco pur coi miei dubbi.

4. Ci sono due modi in cui posso usare le mie poche energie intellettive: dibattendo sul modo migliore di essere antirazzisti con chi il razzismo lo vive ogni minuto, oppure aiutando le persone nere e di colore a far sentire la propria voce facendo umilmente da megafono. Per esempio, in questo spazio ho il dovere di condividere quel po’ di visibilità che sto avendo coi veri protagonisti.

Per questo ho chiesto all’attivista Simon Samaki Osagie, curatore del progetto Speaker Box Street Party, di aiutarmi a conoscere attivisti, autori, creativi di colore. Lui gentilmente mi ha regalato una lista in cui c’è da perdersi – da autrici come Djarah Kan, che riesce a risvegliare un’orchestra di sentimenti che va dalla rabbia alla speranza alla voglia di agire, a musicisti come Tommy Kuti che sa provocare divertendo. Trovate la lista, con un paio di mie aggiunte, in fondo al post.

5. Il politicamente corretto è fastidioso e i fatti dimostrano che non basta. Non è bastato cancellare la parola “ne*ro” dal vocabolario accettabile, non basterà ricontestualizzare Via col vento (e non cancellare, come si è erroneamente detto). Non è sufficiente e non risolve il problema. Ma è comunque giusto e necessario, quindi va fatto. Semplicemente perché molti chiedono di essere trattati con rispetto, e negarglielo è semplicemente da s*****i.

6. Il mondo è pieno di bianchi che parlano. Di tutto. Anche di ciò che non li riguarda. Liberi loro, per carità, ma liberi tutti noi di dedicare il nostro spazio mentale ad altro.

7. Le statue. Davvero c’è chi in questo momento parla di statue? Mentre i neri gridano che non possono letteralmente respirare, dopo un video come quello della morte di Floyd, si riesce ad avere il sangue freddo di parlare di statue? Io non ce la faccio. Comunque la si pensi, ridimensioniamo e torniamo a occuparci della cosa davvero grave.

8. “Ha davvero senso parlare di razzismo e non, semplicemente, di disuguaglianza economica e sociale?” La domanda ha senso, ma non porta lontano: le due cose si nutrono l’una dell’altra. Per quel poco che mi sembra di capire, il razzismo porta a disuguaglianza economica per non spartire risorse con chi è “diverso” (vedere il lavoro di Alberto Alesina a riguardo) e perché divide classi sociali povere bianche e di colore impedendo loro di coalizzarsi (su questo, leggere Howard Zinn).

Finché c’è disuguaglianza economica, le conseguenze del razzismo si tramandano fra le generazioni. Inoltre, la disuguaglianza economica crea uno squilibrio di potere che è un’arma in mano ai razzisti e un fattore di vulnerabilità per chi vive così nel bisogno. Che senso ha dissezionare le due cause d’ingiustizia, quando sono entrambe urgenti e gravi? Agiamo su entrambe adesso, piuttosto.

9. “Ma gli Italiani non sono razzisti, è solo che ce l’hanno con gli immigrati”. In primo luogo, cosa cambia? Sempre di atteggiamenti orrendi si tratta. In secondo luogo, sul razzismo, i miei amici di colore che hanno visitato l’Italia sono sempre tornati delusi del trattamento ricevuto. Per non parlare del nostro passato, su cui sorvoliamo con colpevole nonchalance. La discriminazione imposta in Eritrea prima ancora che arrivasse il fascismo in che altro modo può essere qualificata? Se non vogliamo riconoscere il nostro passato e chiamarlo col suo nome, siamo sicuri di essere davvero cambiati?

Queste le poche riflessioni di questi mesi. Per il resto, cerco di parlare meno. Proporrei una distinzione fra il silenzio (la condizione di chi trattiene qualcosa che deve essere detto) e l’ascolto: l’atto, deliberato, di chi non parla perché ha bisogno di capire che cosa, veramente, ci vogliono comunicare gli altri.

Coltiviamo l’ascolto: è rigenerante. Una questione come quella del razzismo, che coinvolge ed è vissuta da altri e si manifesta in modi complessi e sottili, non è facile da capire, nemmeno dopo ore passate a leggere, informarsi, parlare con chi ne è colpito. Cerchiamo di avere qualche opinione in meno e qualche domanda in più.

Gli immigrati e i neri con la propria voce. Una piccola lista (messa insieme con Simon):
Abdou M Diouf; Amir Issa; Amin Nour; Andi Ngans; Angelica Pesarini; Antonella Bundu; Comitato 3 Ottobre; Djarah Kan; Esperance Hakuzwimana; Evelyne S. Afaawua; Igiaba Scego: John Modupe: Neri Italiani – Black Italians; Oiza Q. Obasuy; QuestaèRoma; Razzismo Brutta Storia; Sonny Olumat; Tommy Kuti; Speaker Box; Street Party; Yvan Sagnet.

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