Dalle sue parti i suoi fan non lo nominano neanche: quando si riferiscono a lui alzano semplicemente la testa e guardano in alto, in un punto nel vuoto più o meno alla destra dell’interlocutore. Molti altri, invece, non ne pronunciano quasi mai né il nome e nemmeno il cognome. Lo definiscono semplicemente “iddu“, lui. E quando qualcuno, sprovveduto, chiede chi sia “iddu“, rispondono: “Iddu, ‘u latitanti“. È questo che è per i suo conterranei Matteo Messina Denaro, l’ultima primula rossa di Cosa nostra: un signore che semplicemente non c’è.

E su iddu, ‘u latitanti, che Lirio Abbate, esperto giornalista di cose di mafia, ha cercato di mettere ordine. Sull’enfant prodige di Cosa nostra, sul pupillo di Totò Riina, “gemello diverso” di Giuseppe Graviano e ultimo custode dei segreti delle stragi rimasto in libertà, il vicedirettore dell’Espresso ha scritto un saggio d’inchiesta che è un mosaico di ricostruzioni e testimonianze inedite. Il libro è uscito per Rizzoli e i sichiama ‘U Siccu, l’ultimo capo dei capi: il secco è uno dei tanti soprannomi del principe nero di Castelvetrano. Gli altri appellativi noti sono Diabolik, come il ladro dei fumetti. E poi c’è “iddu“, “‘u latitanti“, che non è un soprannome ma il modo per definire una personalità ingrombrante nonostante sia assente.

La verità è che Matteo Messina Denaro è un fantasma. Non ne conosciamo la voce, le impronte, neppure la faccia: le fotografie più recenti risalgono ormai a più di trentecinque anni fa quando “iddu” aveva poco più che vent’anni. Oggi ne ha 58: come cambia la faccia di un uomo tra i 20 e 60 anni? Ecco perché il lavoro di Abbate è importante. Raduna sulle pagine del libro ogni elemento noto del fantasma di Castelvetrano. E ci aggiunge qualche scoop: il giornalista, infatti, pubblica per la prima volta l’unico verbale giudiziario esistente di Messina Denaro. È il 30 giugno del 1988 e l’allora 26enne Matteo compare davanti alla squadra Mobile di Trapani che lo vuole interrogare sull’omicidio di Giuseppe Accardo, un agricoltore mafioso della zona. “Mi chiamo Matteo Messina Denaro e sono il quarto dei sei figli di mio padre Francesco Messina Denaro e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi. Voglio precisare che mio padre ha iniziato la sua attività agricola come campiere e coltivatore presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti che si trovano in contrada Zangara a Castelvetrano. Questa attività è stata svolta da mio padre per circa trent’anni fino a quando tre anni fa sono subentrato io al suo posto con compiti simili a quelli che svolgeva lui”, dice il futuro Diabolik di Cosa nostra. Era il 1988, 32 anni fa: oggi il quarto dei sei figli di don Ciccio Messina Denaro è l’ultima punta di diamante di Cosa nostra, ed è stato capace di rimanere latitante per ventisette anni. È diventato un ricercato nel 1993 e lo è ancora oggi, nell’epoca in cui gli smartphone tracciano gli spostamenti di ognuno di noi.

Come ha fatto a rimanere un fantasma? Chi lo ha protetto? E in che modo? Ma soprattutto: chi è oggi ‘u Siccu? “È uno che ha accumulato tanto denaro da non doverlo più contare”, risponde Abbate nel libro. “Diverso dagli altri padrini corleonesi, ha speso molto, in passato, per gli affiliati. Ha scelto la generosità come strategia di amministrazione del potere, ma se qualcosa in questo meccanismo dovesse incepparsi, i favoreggiatori non farebbero eccezioni: se non dà, se lo vendono“.

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Condannato per mafia, percepiva il reddito di cittadinanza: denunciato dei finanzieri. Era stato arrestato insieme al fratello di Totò Riina

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