Dewayne Johnson: è il nome del giardiniere di una scuola di una cittadina vicino San Francisco, malato terminale per un linfoma “non-Hodgkin”. Quest’uomo intentò una pionieristica causa civile contro la Monsanto – società poi rilevata dalla Bayer (che, quindi, divenne anch’essa parte in giudizio) – poiché affermava che la sua patologia fosse stata causata anche dall’esposizione professionale al Roundup, il celeberrimo erbicida a base di glifosato prodotto dall’altrettanto nota multinazionale delle sementi e dei pesticidi. Il giardiniere chiedeva, pertanto, il risarcimento dei danni che gli erano derivati da quella terribile malattia.

Nell’estate di due anni fa, un Tribunale di San Francisco gli diede ragione: condannò la Monsanto a versare 289 milioni di risarcimento danni, di cui 250 a titolo di “danni punitivi” (ridotti in appello a 39, per un risarcimento finale di 78 milioni). Fu la rottura di un argine. Da allora, la sentenza del sig. Johnson ha creato un precedente, presto emulato da altri provvedimenti analoghi. I quali hanno dato nuova linfa ad altre migliaia di azioni legali di persone in condizioni più o meno simili a quelle del giardiniere californiano; in un’autentica spirale giudiziaria per la corporation tedesca.

L’aria si era fatta talmente pesante per questa che, ben presto, anche le quotazioni di Borsa del titolo presero a precipitare, regalando agli azionisti Bayer il dubbio di non aver fatto proprio l’affare della vita con l’acquisizione della Monsanto. Insomma, si erano create tutte le condizioni perché i nuovi proprietari del Roundup cercassero, con una certa sollecitudine, la via di fuga più immediata ed efficace rispetto al diluvio di risarcimenti che stava, con buona probabilità, per abbattersi su di loro. Il che, in questi casi, di solito significa una cosa sola: tentativo di transazione con il maggior numero possibile di controparti; anche a costi molto alti.

E’ quello che sta per succedere: dalla crepa nell’argine Monsanto-Bayer provocata dalla causa del sig. Johnson stanno per piovere circa 10,5 miliardi di dollari su 95mila presunti danneggiati dal glifosato che avevano intentato un’azione di danno contro il colosso dell’agrochimica, affinché gli stessi soggetti rinuncino alle loro pretese risarcitorie e abbandonino i giudizi eventualmente già incardinati.

Dall’accordo transattivo resterebbero fuori, per loro volontà, altre 25mila parti lese, ma rimarrebbe, in ogni caso, un patteggiamento mastodontico per un somma enorme. Che, in quanto tale, non può non suscitare qualche interrogativo “a latere”.

Se Bayer ha accettato di sottoporsi a un tale salasso, quanto sono forti, ormai, le evidenze di cancerogenicità del glifosato? E quanto esse, traslate in un procedimento giudiziario, possono, più o meno agevolmente, diventare prova del nesso causale tra l’esposizione a questa sostanza e l’induzione di una o più malattie, a partire dal linfoma “non-Hodgkin”?

Perché questi effetti nefasti del pesticida in questione dovrebbero svilupparsi solo negli Usa, se esso impreziosisce una grande parte di campagne e di raccolti anche in Europa e in Italia, com’è noto? E, di conseguenza, quanto tempo ancora questa materia e questi giudizi potranno restare appannaggio dei tribunali dell’altro lato dell’Atlantico senza che nessuno si ponga domanda o dubbio di sorta anche da queste parti, specie tra coloro che condividono in qualche modo la triste condizione del sig. Dewayne Johnson?

Per quanto tempo ancora le varie istituzioni dell’Unione Europea (Agenzia Europea per la sicurezza alimentare, Commissione, Parlamento…) potranno continuare a fare come se niente fosse di fronte alle notizie che arrivano dagli Stati Uniti? Più precisamente, per quanto tempo ancora dovrà rimanere in piedi quel nobilitante rinnovo dell’autorizzazione all’uso del glifosato concesso dalla Commissione Europea, di concerto con la maggioranza degli Stati membri, nel dicembre 2017? Provvedimento, peraltro, sulla trasparenza e legittimità del quale erano già emersi dati illuminanti nella vicenda dei Monsanto Papers, ancor prima che il rinnovo venisse formalizzato?

E se quelle stesse istituzioni europee continuassero a fare virtuosi esercizi di stile da struzzi, lasciando accuratamente la testa nelle viscere della terra, come si dovrebbe interpretare, precisamente, l’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che afferma che “la politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire” la “salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente” e la “protezione della salute umana”? E per il quale quella stessa “politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela” ed “è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”?

Sono domande tanto di elementare buon senso quanto singolarmente assenti dal dibattito pubblico “che conta” in queste questioni. E, forse, in questa fase, quest’assenza è uno dei primi fattori di rischio per la sicurezza alimentare e la tutela dell’ambiente e della salute pubblica in Europa.

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