A leggere le dichiarazioni rilasciate dal personale della struttura ai magistrati, più che contenere i contagi da Covid, al Pio Albergo Trivulzio di Milano sembra essere stato fatto di tutto per diffonderlo. È quanto emerge dalle denunce depositate in procura da sindacalisti e lavoratori della più importante struttura per anziani della Lombardia dove tra gennaio e aprile sono morti 300 anziani, mentre oltre 200 operatori sono in malattia o in quarantena. E questo non solo per la questione delle mascherine che anche dopo il lockdown sarebbero state addirittura proibite, mentre in generale i dispositivi di protezione sono mancati fino a metà aprile. Gli infermieri della Baggina parlano anche di insufficiente isolamento dei nuovi pazienti, visite da parenti vicini alla zona rossa, ospiti non ancora negativizzati ma spostati da un reparto all’altro, tamponi irregolari, fatti tardi e male e applicazione di teorie secondo cui gli asintomatici non sarebbero contagiosi. Insomma, di “carenze organizzative” sull’isolamento e sulle prassi “di contenimento e distanziamento interne ai reparti”.

Nel dettaglio Franco Ottino, infermiere del Pat e sindacalista Cisl scrive che il “17 o il 18 marzo” il direttore generale del Pio Albergo, Giuseppe Calicchio, indagato nell’inchiesta della Procura di Milano sulla gestione del Covid, “avrebbe intimato a un infermiere del reparto Bezzi di togliersi la mascherina, minacciandolo, in caso di rifiuto, con l’immediato licenziamento“. Qualche giorno prima, il 13 marzo, in risposta ad una lettera dei lavoratori sulla mancanza di mascherine il manager scrisse che si trattava di “puro allarmismo“. La lettera di risposta è allegata alla denuncia. All’interno della quale Ottino ricostruisce passo passo, riportando lettere di diffida dei sindacati, risposte della direzione generale e bollettini interni del Trivulzio, tutta una serie di carenze, a suo dire, sulla “gestione della salute e sicurezza” nella struttura soprattutto riguardo alla “fornitura di dispositivi di protezione“.

Già a fine febbraio, si legge nel documento, “il personale era perfettamente consapevole di poter rappresentare un potenziale vettore del virus”. L’11 marzo lo stesso sindacalista scrisse “una missiva indirizzata alla Direzione della Rsa” segnalando che gli operatori erano “impossibilitati a mantenere la distanza di sicurezza inferiore a quella prevista dalle disposizioni dell’Oms”. Per questo, chiedevano mascherine. Il 13 marzo, appunto, la risposta scritta di Calicchio: “Nessuna disposizione nazionale o regionale è disattesa o sottovalutata e la mancata applicazione di regole dettate da puro allarmismo, piuttosto che da competenza, non è evidentemente mancanza di tutela per gli operatori”.

Il sindacalista, poi, riporta “due circostanze”, facendo nomi e cognomi. Prima segnala che alcune infermiere dei reparti Schiaffinati e Grossoni hanno riferito che, “tra il 14 e il 15 marzo”, una virologa e una responsabile della Direzione professioni sanitarie della struttura, assieme a “due caposala“, avrebbero dato “precisa indicazione al personale sanitario di non indossare mascherine”. E, si legge ancora nella denuncia, “i medici aggiungevano, per superare le proteste degli operatori, che i soggetti asintomatici non erano da considerare portatori di contagio”. E, quindi, in assenza di sintomi come febbre o tosse degli ospiti, non era necessario usare “i dpi”. Poi, l’episodio del “17 o 18 marzo” nel quale, secondo Ottino, Calicchio avrebbe minacciato un infermiere che voleva usare la mascherina.

Un’infermiera racconta invece agli inquirenti che anche dopo “il primo decesso anomalo” del 10 marzo i medici del Trivulzio avrebbero chiesto al personale di servire i pasti agli anziani nel salone comune, malgrado gli infermieri di loro iniziativa avessero deciso di distribuire il cibo “presso le stanze dei pazienti”, per ridurre le possibilità di contagi. Nella denuncia, tra l’altro, l’infermiera lamenta anche “irregolarità” nell’esecuzione dei tamponi al Trivulzio, effettuati “solamente” a partire “dal 20 aprile”. Tamponi che, a detta dell’infermiera, non venivano effettuati “in profondità nella zona retro tonsillare, né tanto meno nella posteriore della rinofaringe“. E “senza attendere l’esito del secondo tampone, “gli ospiti risultati negativi erano spostati in altri reparti”.

Nella denuncia l’infermiera segnala, poi, che era il personale a farsi “carico” delle soluzioni per cercare di “proteggere i degenti”. Nella stessa denuncia si parla di spostamenti “su più reparti di medici, infermieri e operatori sanitari” perché c’era una “carenza di organico già prima dell’emergenza sanitaria”. Decisioni che, assieme ad altre, avrebbero alimentato la diffusione del Coronavirus.

L’infermiera, difesa dal legale Anna Liscidini, racconta ciò che avrebbe visto nel suo reparto a partire da fine febbraio, quando il personale si accorse del primo caso di sospetto Covid. A preoccupare, si legge, “era il fatto che l’anziano ricevesse spesso visite dai parenti, tutti provenienti da Comuni limitrofi” alla “zona rossa” del Lodigiano. C’erano spostamenti tra i reparti di pazienti che “non erano sottoposti a tampone”, né se avevano sintomi Covid né quando morivano. Il 14 marzo una “dottoressa”, assieme ad alcune caposala, disse alle infermiere di non indossare le mascherine “per non creare scompiglio tra i degenti”.

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