Il Covid-19 domina ormai dal Tetto del mondo. Rimbalza dal Nepal al mondo alpinistico internazionale la grande preoccupazione delle agenzie specializzate per l’imminente nuova stagione primavera-estate di scalate agli Ottomila e di trekking ai campi base. Dopo le numerose disdette dei cinesi, è stata la volta degli italiani, che hanno preceduto gran parte degli altri europei a cancellare le prenotazioni. Vedremo ora gli americani.

Al di là della situazione nepalese, tra incertezze e sottosviluppo, che ha spinto il governo a varare il blocco dei visti dal 7 marzo, è proprio la natura stessa di questo tipo di turismo estremo che costituisce di per sé, tra affollamenti in quota, promiscuità nelle tende e impiego sistematico di bombole d’ossigeno, un moltiplicatore dell’effetto droplet (termine tecnico da profilassi sanitaria, entrato in voga dopo che il nuovo decreto governativo impone ai gestori dei bar di far rispettare la distanza di un metro tra gli avventori, ovvero il limite oltre il quale le goccioline – droplets, appunto – perdono l’eventuale carica virale).

Chi segue le cronache alpinistiche aveva già sentore di un cambiamento. L’ultima fallimentare stagione invernale di assalto agli Ottomila ha registrato il caso della spedizione più ambiziosa, per il K2, guidata da Mingma Gyalje Sherpa e composta da un cinese, un islandese e uno sloveno. Molti osservatori hanno subito guardato con sufficienza a questo progetto, perché più informale e genuinamente troppo rischioso, nonché privo di star alpinistico-commerciali.

Alla fine, dopo aver raggiunto quota 6600 metri, la piccola compagnia si è sciolta precipitosamente perché il cinese è stato raggiunto dall’avviso che a casa c’era un ammalato di coronavirus e urgeva il suo rientro: lo sherpa, suo compagno di tenda, manifestando da giorni sintomi gravi alle vie respiratorie, ha deciso di farsi ricoverare nel più vicino ospedale, dove gli è stata diagnosticata una bella polmonite, virale sì ma non da Sars-CoV-2. Ai compagni d’avventura, l’islandese e lo sloveno, non è restato che rinunciare alla scalata e tornarsene giù a piedi, ripiegando su un lungo trekking in quota, più seccati che preoccupati per i due soci soccorsi dagli elicotteri.

Era dunque prevedibile quel che si annuncia, cioè lo scricchiolio anche di tutto il giro d’affari legato agli Ottomila, come quello del turismo e del tempo libero in genere. Lo psicodramma collettivo della Milano da bere, con il sindaco Beppe Sala che invoca e ottiene la riapertura serale dei locali, è stato soltanto “l’aperitivo” del panico da crisi economica, con la preoccupazione diffusa per la perdita di lavoro, il mantra del “non moriremo di coronavirus, ma di fame”, le considerazioni sull’imprevisto stop alle produzioni industriali e al commercio, i punti in meno di Pil, il crollo delle Borse.

E l’assolutismo del profitto, scopriamo in questi giorni, miete le sue vittime senza pietà, con le grandi aziende farmaceutiche che vengono accusate dagli esperti di disinteressarsi di epidemie come questa in corso, perché poco redditizie, o di aver abbandonato per lo stesso motivo la ricerca di nuovi antibiotici, considerata poco profittevole, nonostante la conclamata crisi di resistenza a quelli più diffusi stia ponendo a rischio la medicina stessa.

Siccome la situazione non è tragica ma almeno molto seria, conviene riandare ai fondamentali e rileggere, per esempio, quanto profetizzava ormai cent’anni fa, a proposito della divinizzazione del capitalismo, quello che è considerato uno dei pensatori più importanti del Novecento, Walter Benjamin. Un suo frammento molto compulsato dagli studiosi, tra cui Carlo Salzani, che ne ha curato l’edizione italiana per Il melangolo, recita: “Il capitalismo è una religione puramente cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. In esso nulla ha significato…”.

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