Negli ultimi tempi anche in Italia si è sproloquiato tanto di “over-tourism”, un neologismo coniato qualche anno fa a proposito degli effetti nefasti dell’eccessivo assalto di turisti all’Islanda. Di questo fenomeno i cinesi sono stati i grandi protagonisti, a Reykjavìk come a Roma, Firenze, Venezia e Milano: si calcola che l’anno scorso siano arrivati a superare quota 5 milioni solo in Italia.

Perciò, appena qualche giorno fa, il sottosegretario dei Beni Culturali con le deleghe al turismo – già responsabile del settore nel Pd – Lorenza Bonaccorsi aveva indicato tra le priorità degli investimenti pubblici nel settore proprio “la distribuzione dei flussi turistici e la valorizzazione delle destinazioni cosiddette minori”. Per non dire dell’impegno a sostenere il padiglione italiano all’Expo 2020 di Dubai, o del tiremmolla a vuoto sulla regolamentazione delle cosiddette “locazioni turistiche”, che dopo il boom di Airbnb sono diventate incontrollabili, non solo per il fisco.

A Roma, oltre a quasi 32mila appartamenti sul più noto portale di case in affitto, sono regolarmente censite quasi 18mila “strutture extralberghiere” e Federalberghi ipotizza l’esistenza di altre 14mila case adibite alla locazione turistica in maniera meno formale e non dichiarata.

Con la psicosi da coronavirus le città fino ad oggi più pressate dal cosiddetto “overtourism” rischiano di pagare un conto molto salato: nel suo primo allarme, per esempio, il sindaco Beppe Sala valuta l’apporto cinese che sta venendo a mancare a Milano in 300 milioni di euro al mese.

Del resto, gli analisti sostengono che il 35% dei turisti cinesi che ogni anno visita l’Italia fa parte dei cosiddetti élite consumer, cioè di quelli che comprano i prodotti più cari dei marchi più noti. E anche chi prova a sminuire il problema prendendo il termine di paragone della Sars deve comunque tener conto che nel 2003 i cinesi coprivano appena il 2% della domanda mondiale di beni di lusso, fetta che oggi è salita ampiamente sopra a un terzo dell’intero mercato.

Ma il contagio economico è già arrivato agli eventi sportivi e fieristici, si ragiona addirittura di uno stop alle Olimpiadi di Tokyo. Gran parte delle crociere subisce disdette e crolli di prenotazioni (e c’erano operatori di prim’ordine, tra l’altro, che contavano di riempire le navi per portare il pubblico a Dubai 2020). Non manca chi prova a reggere la sfida, per esempio finora Barcellona ha ribadito di voler comunque aprire, pur con misure preventive straordinarie, il Mobile World Congress del 24 febbraio, la fiera più importante per il mercato degli smartphone e delle nuove tecnologie di comunicazione, settore dove svettano le aziende cinesi. Vedremo se e quanti arriveranno davvero, tra i 100mila espositori e addetti ai lavori che sono attesi.

Ma se anche fosse già quasi giunto il giorno in cui guardiamo all’overtourism come a un passato prossimo da rimpiangere, non possiamo dimenticare l’urgenza di un fenomeno che ha stravolto tanti piccoli pezzi di paradiso in terra e il mercato immobiliare, se non la vita stessa, dei grandi centri: quasi la metà del miliardo e 500 milioni di turisti che formicolano nel mondo l’anno scorso ha scelto di visitare città.

E se si prendono i dati ufficiali dei 300 agglomerati urbani più grandi del mondo, si nota subito che insieme superano il tetto dei 500 milioni di viaggiatori, ma mancano i numeri di quell’enorme quantità di locazioni private scelte dai turisti degli anni Dieci. Ci sono già state reazioni di difesa in varie metropoli, che hanno fissato un tetto massimo di 80-100 giorni annui consentiti per l’affitto agli host di Airbnb e simili. Dieci città europee (Amsterdam, Barcellona, Berlino, Bordeaux, Bruxelles, Cracovia, Monaco, Parigi, Valencia e Vienna) si sono addirittura rivolte insieme alla Ue per invocare una regolamentazione seria.

Ora la sfida davvero impegnativa che attende il duo Bonaccorsi-Franceschini e il governo bis-Conte sarebbe quella di guardare al di là dello stato di crisi già dichiarato dalle associazioni degli operatori (-50%, piangono gli albergatori della sola Venezia) e valutare le opportunità che l’emergenza sanitaria del coronavirus può aprire per rifondare una politica del turismo nel nostro fu Belpaese.

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