Sono passati 29 anni dalla strage del Pilastro a Bologna. Ma per i familiari dei tre carabinieri uccisi non c’è ancora pace. Chiedono la riapertura delle indagini e protestano per il permesso concesso a Natale ad Alberto Savi, uno dei fratelli tra i componenti della banda della Uno Bianca. “Io penso che non sia giustizia questa – dice Rosanna Zecchi, presidente dell’Associazione Familiari Vittime -. Noi per andare a trovare i nostri familiari andiamo nei cimiteri. Purtroppo questa è la verità e loro dovrebbero vergognarsi di potere usufruire di questi permessi premio e andare a trovare i loro familiari. Questa però è una cosa che fanno e noi dobbiamo prenderne atto, se la giustizia è questa dobbiamo prenderne atto. Hanno fatto piangere troppe persone non possiamo stare zitti”. Una riflessione sull’esecuzione della pena però viene chiesta anche dal sostituto procuratore generale di Bologna, Valter Giovannini.

Alberto Savi, il più giovane dei tre fratelli della banda della Uno Bianca (gli altri sono Roberto e Fabio), che tra il 1987 e l’autunno del 1994 fece 24 morti e oltre 100 feriti, durante le vacanze natalizie ha usufruito di un permesso premio, potendo trascorrere qualche giorno a casa con i familiari. L’ex poliziotto killer, che sta scontando l’ergastolo, è già rientrato nel carcere di Padova. Non è la prima che usufruisce di un beneficio, era già successo nell’aprile del 2018, quando aveva ottenuto tre giorni e mezzo di permesso per le feste, con la possibilità di uscire a pranzo il giorno di Pasqua, e ancor prima nel 2017, quando gli erano state concesse 12 ore da trascorrere in una comunità protetta. “Sta continuando in maniera regolare i permessi premio – ha spiegato l’avvocata Anna Maria Marin – e il suo comportamento viene valutato costantemente. In carcere prosegue a lavorare con una cooperativa”. Circa un mese fa, invece, il magistrato di sorveglianza ha rigettato la richiesta di Fabio Savi, detenuto nel carcere milanese di Bollate, di poter lavorare all’interno dell’istituto penitenziario. “Sta già facendo dei corsi in carcere – ha spiegato l’avvocata che lo assiste, Fortunata Coppelli -, ma nonostante le relazioni sul suo conto siano positive la richiesta di lavoro è stata respinta“.

“Della singola vicenda non parlo. In generale da tempo penso che si debba trovare il modo di rivedere l’intera normativa relativa all’esecuzione della pena. La detenzione non può essere solo rieducazione, ma deve ricomprendere anche, soprattutto per reati gravissimi, una cospicua parte di espiazione retributiva – afferma Giovannini che coordinò le indagini e condusse i processi in aula sui delitti bolognesi commessi dai fratelli Savi – Di ciò sono sinceramente convinto anche se recentemente la Corte europea per i diritti dell’uomo occupandosi del cosiddetto ergastolo ostativo, per i reati di mafia, si è pronunciata in senso diametralmente opposto”. Anche il sindaco di Bologna, Virginio Merola, era presente alla commemorazione: “Le persone che hanno sofferto, che hanno passato dei Natali così difficili per questi delinquenti, non potranno mai dimenticare. La giustizia in Italia è dovuta al nostro sistema democratico che sicuramente i criminali della Uno Bianca hanno disprezzato, ma di cui oggi godono anche i vantaggi Le leggi non si possono fare ad personam, ma sicuramente essere qui ogni anno, come comunità, dimostra che siamo sulla strada giusta. Questa è giustizia“.

I parenti dei tre militari dell’Arma trucidati, Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, chiedono la riapertura delle indagini: “Noi familiari siamo determinati nel ricercare la verità, anche se lontana e difficile da raggiungere ed auspichiamo una riapertura delle indagini – scrivono in una lettera i familiari consegnata ai cronisti durante la commemorazione – Un contributo in questa direzione potrebbe arrivare anche dalla preannunciata informatizzazione e pubblicazione degli atti processuali, così come avvenuto per altre vicende giudiziarie. Ci batteremo affinché venga fatta piena luce sulle tante ombre che aleggiano su questa vicenda e continueremo ad opporci a vergognosi sconti di pena per coloro che si sono macchiati di crimini così efferati. Le istituzioni del nostro Paese – conclude la lettera – hanno il dovere di attivarsi per fare chiarezza su questi sette anni di terrore, perché le vittime della Uno Bianca e i loro familiari hanno pagato un prezzo altissimo che merita rispetto e giustizia”. “Speriamo di sapere la verità vera sulla Uno Bianca perché, fino adesso, penso che non l’abbiamo saputa. La sanno solo quelli che sono in cielo e i Savi, ma io penso che morirò senza saperla. Mi auguro – dice Anna Maria Stefanini, madre di Otello – almeno di sapere quello che è successo, perché è stato fatto, uccidere ragazzi che in tre avevano 64 anni è una cosa a cui ancora, adesso, non posso pensare. Sono passati 29 anni – ha aggiunto – ma è come se non fosse passato niente. Il mio dolore è sempre quello, anzi più anni passano più è peggio“. E sul permesso premio aggiunge: “Sentendo tutte queste cose… A quello gli danno i permessi, gli altri li hanno rimessi tutti insieme. Mi piace che li hanno messi insieme, così quando escono la banda è riformata. Però sono talmente stanca di aver parlato tanto in questi anni, ma non si è concluso niente. È una cosa indecente che chi ha ucciso 24 persone e ne ha ferite 103 debba uscire con i permessi. Per me non dovrebbe esistere – ha concluso – anche se io sono cristiana e credente. Chi sbaglia deve pagare, specie perché anche loro indossavano una divisa. A me hanno tolto la vita, la cosa più preziosa che una mamma possa avere: un figlio. Non è una cosa che può passare mai”.

Roberto Savi invece ha presentato istanza di grazia al presidente della Repubblica, chiedendo di commutare l’ergastolo in una pena temporanea. La richiesta, riporta l’Ansa, è stata avanzata nel 2017 e verso la fine di quell’anno la Questura di Bologna ha dato parere negativo. A metà 2018 anche la Procura Generale di Bologna si è espressa nello stesso modo, in un parere all’ufficio di Sorveglianza di Milano, evidenziando l’assenza di qualsiasi elemento per concedere quanto chiesto dal detenuto. Non si sa se l’iter sia attualmente concluso e sia ancora pendente. Sul percorso di rieducazione, in particolare la Procura generale osservava come, sulla base delle informazioni pervenute dal carcere, Savi non sembrava aver maturato la consapevolezza degli effetti lesivi della sua condotta, né il condannato avrebbe un percorso di reinserimento sociale stabile. Nell’agosto del 2006 Roberto aveva già domandato la grazia al Presidente della Repubblica salvo poi tornare sui propri passi nove mesi più tardi per le polemiche scoppiate, soprattutto per la dura reazione dell’associazione dei familiari delle vittime della banda.

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