La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto il ricorso del governo italiano contro la sentenza pronunciata dai giudici europei nel giugno scorso nel caso Viola vs. Italia. I ricorsi presso l’organo supremo della Cedu sono dichiarati ammissibili quando il caso trattato sia ritenuto di rilevanza generale per i Paesi del Consiglio d’Europa. Cosa che in questo caso non è successa. Il tipo di carcere a vita cui la sentenza si riferiva è qualcosa di peculiare del nostro ordinamento. Ma ripercorriamo i passaggi della vicenda per cercare di capire cosa ha affermato la Corte.

Marcello Viola è un uomo condannato all’ergastolo, in carcere dal 1991. Da allora a oggi il suo comportamento penitenziario è stato impeccabile, non avendo mai ricevuto nemmeno un provvedimento disciplinare. Ma Viola non è condannato a un ergastolo “ordinario”, bensì a quello che viene chiamato “ergastolo ostativo”. A che cosa osta? Alla concessione di quei benefici penitenziari – permessi premio, misure alternative, liberazione condizionale dopo 26 anni di pena scontata – che la legge concede ai condannati che mantengono una buona condotta carceraria, come parte del percorso di recupero sociale sancito dalla Costituzione.

L’ergastolo ostativo viene comminato per talune tipologie di reato elencate nell’ordinamento penitenziario. Se hai commesso uno di quei crimini e sei condannato all’ergastolo, non hai alcuna speranza che la tua pena venga rivista alla luce del tuo percorso personale, come solitamente accade – seppur faticosamente – in un sistema di pena flessibile quale quello pensato dal legislatore italiano. Una sola circostanza potrà determinare la tua uscita dal carcere: che tu faccia i nomi di qualche vecchio compagno di crimine, così da collaborare con la giustizia nel sostituire la sua libertà con la tua.

Marcello Viola non ha mai voluto collaborare con i giudici, spiegando le sue paure nel lasciare la famiglia in balìa di possibili ritorsioni. Ma per la legge italiana non c’è spiegazione che tenga. Si procede in questo caso in maniera del tutto meccanica: se non collabori con gli inquirenti, oppure non dimostri secondo parametri estremamente rigidi che non sei in grado di collaborare perché ad esempio non hai alcuna informazione da condividere, allora automaticamente non hai accesso ai benefici di legge.

La Corte di Strasburgo non ha fatto altro che contestare questo automatismo, ridando ai giudici potere decisionale anche in caso di ergastolo ostativo. Non ha mai detto che Marcello Viola deve uscire di galera, né tantomeno che devono farlo alcune centinaia di boss mafiosi, come in questi giorni è capitato di leggere. Ha detto solo che i magistrati devono poter sempre valutare il caso singolo, la singola situazione, il singolo percorso penitenziario, senza vedersi le mani legate da leggi che impongono percorsi prestabiliti.

La mancata collaborazione con la giustizia può talvolta essere indice del fatto di sentirsi ancora vicini alla sfera criminale, ma altre volte può dipendere da tutt’altro. Sta ai giudici valutare. Quegli stessi giudici cui siamo felici di affidare il potere di infliggere una pena non possono poi venir privati del potere di stimare il percorso rieducativo di quella pena stessa.

Nessun giudice avrebbe mai concesso un permesso premio a un Riina che mai aveva dato segni di ravvedimento; nessun giudice concederebbe mai una misura alternativa a qualcuno considerato ancora interno alla criminalità organizzata o comunque capace di tornare a delinquere; nessuno dei detenuti oggi in regime di 41 bis, e dunque valutato come pericoloso, potrà mai venire interessato dalla sentenza della Corte europea.

L’Italia dovrà adesso rivedere le proprie norme in materia di ergastolo ostativo. Non per fare favori alla mafia, non per spalancare indiscriminatamente le porte del carcere, non in termini lassisti. Ma per affermare al contrario che uno Stato forte non ha mai bisogno di sottrarre alcuna pena al proprio fine di recupero sociale.

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