Perché dovrei preoccuparmi per le future generazioni? Che cosa hanno fatto loro per me?

La battuta attribuita alla mente geniale di Groucho Marx è diventata, da tempo immemorabile, lo slogan di vita della larga maggioranza delle generazioni presenti, a ogni livello.

Oggi, a quanto pare, “le future generazioni” – o meglio, i loro settori più vitali e avanzati; le generalizzazioni non sono mai una buona cosa, specie a livello generazionale – hanno deciso di prendere la parola per far capire alle generazioni presenti (o meglio, passate) perché queste ultime dovrebbero iniziare non a preoccuparsi, ma a intervenire, in modo immediato e drastico: quantomeno per provare a rimediare ai disastri ambientali e agli scempi di civiltà che la loro già citata ampia maggioranza ha prodotto, di diversa natura e misura, a seconda della collocazione socio-economica e delle concrete possibilità distruttive dei singoli.

Naturalmente, come per ogni emergente movimento di opposizione che si rispetti (di questo si tratterebbe, ormai), anche nel caso del “Fridays for future” occorre che i suoi membri, in molti casi, si guardino più dagli “amici” che dai nemici.

Ma non pare questa la questione principale, in questo momento.

Questo dovrebbe essere il momento buono – per gli studiosi, i divulgatori e gli attivisti ambientalisti in generale – per far passare il concetto per cui i cambiamenti climatici sono una catastrofe senza precedenti in ordine alla stessa possibilità di sopravvivenza del pianeta, certo.

Ma non sono l’unica emergenza ambientale.

Sono, viceversa, “solo” la punta di un iceberg di quotidiane aggressioni agli ecosistemi e all’ambiente in generale; forse apparentemente meno “apocalittiche” del riscaldamento globale, ma in quanto capillarmente diffuse, ai vari livelli sociali, ancor più pervasive e corrosive dello scioglimento dei ghiacciai e dell’innalzamento degli oceani.

Non è neanche necessario abbozzare elenchi in tal senso: basta fare un giro nelle città e nelle campagne del cosiddetto Belpaese – che di queste pratiche nobili è patria d’elezione, specie in alcune parti del suo territorio – per ricavarne esempi vividi e innumerevoli.

Dovrebbe essere il momento di acquisire, in ogni strato sociale, la consapevolezza che a ogni violazione ambientale corrisponde, di regola, una violazione più o meno grave – o quantomeno un corposo rischio in tal senso – di uno o più corpi umani; un attentato alla salute pubblica.

Cos’altro ci dicono, altrimenti, dati come quelli diffusi appena qualche mese fa dall’Organizzazione mondiale della sanità per cui ogni anno, in tutto il mondo, più di 8 milioni di morti sono attribuibili all’inquinamento atmosferico; 81.000 dei quali riguardano questo paese, secondo l’Agenzia Europea per l’ambiente?

Dovrebbe essere ora di capire che uno dei principali canali che mettono in comunicazione le nocività ambientali con il nostro corpo e il nostro cervello è costituito dal cibo che mangiamo e dal vino e dalle altre bevande che beviamo. Che il sistema maggioritariamente diffuso su scala planetaria di produzione, trasporto, distribuzione e consumo di alimenti è tanto dannoso per le matrici ambientali quanto per le nostre cellule.

Che l’agricoltura ancor oggi dominante, quella intensiva e sostanzialmente industriale – che, a suo tempo, ha avuto un ruolo fondamentale nello sfamare masse enormi di persone; specie a ridosso delle due ecatombi che hanno segnato il secolo scorso chiamate guerre mondiali – è diventata insostenibile per gli equilibri ecologici del pianeta; non per caso, nel 2014, ha prodotto emissioni di gas serra per l’11,5% del totale delle emissioni di tutti i settori, secondo dati Fao.

Per non dire dell’impatto sull’ambiente degli allevamenti intensivi di animali. E, per questo, questo tipo di coltivazione della terra dovrebbe cedere, finalmente, il passo a pratiche agricole nuove e rigenerative, non più lesive di terre ed esseri umani, che potremmo definire “agroecologia”.

Non perché lo evochi qualche visionario nostalgico della zappa o qualche congrega biologica di anime belle, ma perché lo afferma, ormai, anche la Fao in consessi mondiali, com’è accaduto a Roma poco più di un anno fa.

Dovrebbe, insomma, essere arrivato finalmente il momento di capire che il cibo la cui produzione fa male al suolo e alle altre matrici ambientali nuoce anche, in un modo o nell’altro, a chi lo mangia.

Ecco, quando l’onda, più o meno lunga, dei venerdì per il futuro si ritirerà; quando i, peraltro sacrosanti, castelli di sabbia e di rabbia di Greta e dei suoi giovanissimi compagni di sogni e di lotta saranno crollati; quando le “assenze giustificate” per provvedimento ministeriale avranno ottenuto il logico effetto inquinante sulle coscienze di tanti loro beneficiari, come capita spesso in presenza di “autorizzazioni a disobbedire”; quando questo, prima o poi, accadrà, se quell’onda avrà lasciato sulla battigia popolata da quei settori più avanzati delle “future generazioni” anche solo qualcuno degli elementi di consapevolezza cui si accennava sopra, allora i ragazzi e le ragazze dei venerdì del risveglio potranno ritenere di aver ottenuto un risultato un po’ più significativo di una comparsata alle Nazioni Unite, il posto dove si prendono fondamentalmente decisioni di carta.

Per ora, comunque, è il caso di ringraziarli, quei ragazzi e quelle ragazze.

Non foss’altro per una questione di buona creanza.

Anche e soprattutto verso questo pianeta.

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