“Le istituzioni politiche britanniche e comunitarie si devono decidere e lo devono fare in fretta: risolvano questo nodo sulla Brexit, altrimenti per me sarà impossibile preparare la pizza e soprattutto venderla ai miei clienti di Belfast”. Cosa c’entra la pizza Margherita con l’uscita del Regno Unito dall’Ue? Per Alessandro Bianco, napoletano di 43 anni, c’entra eccome: “I prodotti, dalla farina al pomodoro e alla mozzarella, me li faccio inviare da aziende dalla Campania. In questo caso la Brexit sta già facendo danni, ancor prima dell’accordo con l’Ue: negli ultimi mesi, avvicinandoci alla scadenza del 30 marzo, i prezzi della merce sono quasi raddoppiati. L’incertezza, le ripetute proroghe, dal 12 aprile a maggio e adesso pare fine ottobre, lo spettro dell’hard Brexit hanno fatto lievitare i costi più che la pizza e se non si arriva a una stabilizzazione io rischio di non starci più dentro”.

L’Italia, da sempre, esporta grandi chef e abili ristoratori. A Belfast, come nel resto della Gran Bretagna, il made in Italy dell’alimentazione è un ‘must’. Bianco li supera tutti, quanto meno per intraprendenza. Arrivato in Nord Irlanda da Napoli, da allora non se n’è più andato. Laureato in Scienze politiche alla Orientale, in Uk ha iniziato a lavorare per una società di call center e in pochi anni ne è diventato il Senior Manager. Lo incontriamo al porto della città, all’ombra del futuristico edificio che ospita il museo dedicato al Titanic. La sua attività on the road si chiama Pizza VanTastica: “Guadagnavo bene, però mi sentivo in gabbia. Sapevo come preparare la vera pizza napoletana e ho iniziato a pensare alla svolta. Mi dicevano ‘apri un ristorante’, troppi costi e problemi, così ho comprato un van, ci ho montato dentro un forno a legna fatto a regola d’arte e adesso vendo la pizza come street food. Mi sposto in zone definite a seconda degli accordi presi con i privati, ormai ho una rete di clienti di fiducia. Negli ultimi due anni sono stato premiato come Best Street Food in Nord Irlanda, grazie ai voti e ai feedback dei clienti stessi. Con loro si discute, più sui rischi che sulle opportunità della Brexit. Ripeto, io la sto pagando sui conti per le materie prime e temo che, a prescindere dal tipo di accordo sull’uscita, le cose potranno solo cambiare in peggio. E pensare che fino ad un paio di anni fa si lavorava alla grande”.

Ansie e preoccupazioni, le stesse che, il 23 febbraio scorso, hanno accompagnato 210 connazionali a un incontro pubblico sulla Brexit organizzato dal Console Onorario, Federica Ferrieri, alla Queen’s University, la più importante istituzione accademica dell’Ulster: “Erano in tanti e avrebbero potuto essere molti di più, al punto che si sta pensando a un ulteriore appuntamento, una volta accertate le modalità del provvedimento e lo stop ai rinvii. Le domande più frequenti? Il futuro nel mondo del lavoro, gli eventuali documenti da produrre, gli aspetti pensionistici. A rispondere, oltre al Console Generale di Scozia (competente per l’Ulster, ndr), avevo chiamato Cristina Tegolo di The3million.org, un gruppo nato a Bruxelles dopo il referendum sulla Brexit a tutela degli interessi europei nel Regno Unito, i Consiglieri generali degli italiani all’estero (Cgie, ndr), Billè e Nulli, e il Patronato Inca della Cgil. Da parecchio tempo, ormai, mi sto dando da fare per fornire tutti gli strumenti di comprensione in materia di Brexit ai miei connazionali, oltre a un aiuto pratico, in modo da arrivare preparati a quell’evento, quando e se sarà”.

La Console ci riceve nel suo studio di Fitzwilliam street, proprio davanti all’ingresso della storica università nordirlandese, una delle top 20 in Uk: “L’aula quel giorno era piena, non me l’aspettavo. Si respirava un’aria di sicurezza fino a qualche tempo fa sulla questione Brexit, poi, all’improvviso, quella sicurezza si è incrinata. Più che preoccupati li ho visti smarriti e affamati di informazioni pratiche e di chiarezza. Gli italiani di Belfast volevano capire cosa sarebbe loro accaduto di lì ad un mese. Al tempo ancora si parlava di scadenza al passaggio della mezzanotte tra il 29 e il 30 marzo, poi sono arrivate le proroghe”.

Brexit è un bubbone per la Gran Bretagna e per chi nel suo territorio ci vive e ci lavora, compresi i circa 700mila italiani ufficialmente registrati all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. In Nord Irlanda i nostri connazionali sono oltre 1.500: “Quelli registrati – precisa la Ferrieri, a Belfast dal 2010 dove insegna italiano, latino, greco moderno e antico -, tuttavia è possibile che ce ne siano almeno il doppio. In maggioranza sono impegnati nella sfera accademica, presso aziende di call center o nella ristorazione. Nel primo caso – docenti, medici, infermieri – problemi la Brexit non ne crea in alcun modo. Chi si trova nel Paese da oltre cinque anni entra di diritto nel settled status che regolarizza le posizioni, gli altri, collegati al pre-settled status, dovranno soltanto attendere il raggiungimento di quella scadenza. Soprattutto, le singole istituzioni pensano a tutto per la messa in regola. Il problema, eventualmente, è per chi si sposta da qui o per chi deve ancora arrivare avendo l’intenzione di restare per motivi di lavoro. Nella fase successiva ai troubles (disordini, la definizione della guerra civile nordirlandese, ndr), in particolare, l’Unione Europea ha fornito incentivi alle assunzioni e fondi specifici per la ripresa degli ultimi dieci anni”.

Gabriele Di Chiara, palermitano di 39 anni, è un fisico e matematico e insegna proprio alla Queen’s University. Partito dalla Normale di Pisa, ha passato quattro anni a Barcellona prima di trasferirsi a Belfast. Solo nel Dipartimento di Fisica, su 60 docenti, 7 sono italiani. Sulla Brexit ha le idee molto chiare e i timori non mancano: “Fino a oggi parlare di uscita dall’Unione Europea è stato più che altro un condizionamento psicologico. L’unico, concreto motivo di preoccupazione causato dalla Brexit sarebbe non poter più accedere ai fondi di finanziamento dell’Ue a livello accademico. Tutte le università britanniche potrebbero pagarne le conseguenze. Per il resto, io e mia moglie, anche lei ricercatrice e antropologa, non avremmo difficoltà a livello di status giuridico. Siamo arrivati a Belfast da quasi otto anni, ci siamo subito iscritti al pre-settled status e oggi siamo in regola a tutti gli effetti. Per intenderci, nessuno ci può mandare via da qui contro la nostra volontà e, oggettivamente, non vedo motivi validi, al momento, per tornare in Italia. Le condizioni di lavoro qui sono eccezionali, la differenza la fanno i fondi per la ricerca, un abisso rispetto all’Italia. Di recente me ne hanno assegnato uno per mezzo milione di euro, in Italia è impensabile. Gli stipendi qui sono più alti; certo, se non produci pubblicazioni o non attrai finanziamenti rischi di essere allontanato. In Italia, una volta entrato il tuo posto di lavoro non te lo tocca nessuno. Abbiamo comprato casa senza doverci svenare, Belfast è molto economica e si vive bene. Il passato turbolento dell’Ulster non ci ha neppure sfiorato, le violenze sono soltanto un lontano ricordo”.

Sono proprio gli accordi di pace firmati in Nord Irlanda tra le parti impegnate in una trentennale guerra civile, il 10 aprile 1998, a rappresentare un discrimine rispetto alla Brexit e al resto della Gran Bretagna. Il Good Friday Agreement, o Belfast Agreement, non ha risolto le dispute geopolitiche in quella porzione geografica dell’Irlanda britannica, ha però consentito una specie di co-sovranità, accontentando le due parti in conflitto, repubblicani e unionisti, e congelando i reciproci odi. Stuzzicare il can che dorme potrebbe essere molto pericoloso. A nord di Dublino non si tratta soltanto di questioni economiche e burocratiche. Uscire dall’Europa significa ricreare formalmente i borders che, nel secolo scorso, hanno diviso l’isola e, dunque, rischiare un drammatico ritorno al passato, costellato di violenze settarie tra nazionalisti, orangisti e, terzo incomodo, l’esercito inglese.

Al termine Brexit da queste parti se ne deve aggiungere un altro, Backstop, di difficile traduzione in italiano, ‘Antiritorno’ o ‘non ritorno’. Si tratta del vero nodo interno al Regno Unito, magari di poca importanza per i cittadini europei: la protezione degli accordi di pace di ventuno anni fa. E se l’accordo tra Londra e Bruxelles non arriva ancora, il motivo principale è proprio legato al Backstop. Rimettere i confini, significherebbe ripristinare le dogane, i dazi e i controlli documentali per le persone e per le merci. Secondo alcuni analisti britannici, la Brexit è un guizzo estremo di possesso coloniale, in attesa dell’inizio di un percorso referendario per unificare tutta l’Irlanda. Qualcosa di simile, solo nella forma, a quelli sulla devolution e sull’indipendenza falliti, per ora, in Scozia: “Accadrà molto prima di quanto si immagina, forse entro i prossimi dieci anni. I protestanti non sono più la maggioranza dei nordirlandesi e questo produrrà la richiesta di annessione a Dublino, unificando l’intera isola e concludendo il percorso, duro e travagliato, iniziato con l’indipendenza dell’Irlanda nel 1920. Brexit o non Brexit”.

Il professor William Rolston, ora in pensione, ha insegnato Sociologia alla Ulster University di Belfast. Lo incontriamo prima di una session di pezzi musicali folk in un pub nel cuore di Belfast: “Uscire dall’Unione Europea senza un accordo positivo sarebbe un grosso problema e un pericolo per la stabilità sociale per l’Irlanda del Nord. Come vede ho una certa età, ho vissuto sulla mia pelle gli anni dei troubles e non vorrei rivedere le ombre di quel passato. La politica qui non ha fatto, e non sta facendo, grossi passi in avanti. I due partiti principali e rivali, lo Sinn Fein (‘Noi stessi’, ndr) repubblicano e i protestanti del Dup (Democratic unionist party, ndr) non hanno mai mostrato la vera intenzione di cambiare e ad ogni elezione si perpetua questo dualismo. Sarà così anche il prossimo 2 maggio alle elezioni locali”.

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