In un post di qualche settimana fa il viceministro Lorenzo Fioramonti descrive sulla nuova Gazzetta Ufficiale “Facebook” una “non-riforma” dell’università in 10 punti che il governo Giallo-Verde vorrebbe attuare a breve. Come tutti i manifesti programmatici, e come tutte le non-riforme, vi sono molti punti non approfonditi né dettagliati, più o meno fumosi e più o meno credibili. In fondo, annunciare – o meglio promettere in periodo pre-elettorale – di voler incrementare il finanziamento ordinario dell’università di un miliardo di euro non costa nulla, anzi. Bisognerebbe chiedere cosa ne pensi il capo dipartimento del Miur, Giuseppe Valditara, che in un recente documento ha affermato che la priorità è “un intervento sui processi e sulla governance del sistema ricerca”: il resto può aspettare.

Il punto centrale di questo non-manifesto di non-riforma del viceministro riguarda il “pre-ruolo e reclutamento dei ricercatori universitari”: pare ci sia una proposta di legge in cui si intende “ridurre significativamente il periodo post-dottorato”. In un’intervista al Messaggero del 18 marzo Fioramonti entra nel dettaglio: “Dobbiamo eliminare quella giungla di contrattini, borse post dottorato e speranze di un contratto triennale a tempo determinato di tipo A… In futuro, una volta arrivato al dottorato, il ricercatore avrà massimo 5 o 6 anni di precariato: dopo o vinci un concorso per una cattedra oppure ti trovi un altro lavoro”.

Potrebbe essere una bella notizia: finalmente non ci saranno più precari/e che lavorano per 15 anni sottopagati/e reperendo fondi, svolgendo corsi e facendo ricerca ad alto livello, per poi essere espulsi dal sistema. Perché questa è la situazione attuale, nonostante i proclami di Valditara di voler “eliminare la precarietà” nel dibattito parlamentare sulla Legge Gelmini. Anche questa infatti introduceva massimali per gli assegni (4 anni, poi diventati 6) e per il totale complessivo dei contratti a tempo determinato (12 anni). Un sistema costruito a tavolino per avere una massa di precari/e di lungo corso. Cosa che puntualmente si è verificata: il personale precario ormai rappresenta oltre il 58% del personale accademico

I limiti di tempo ai contratti precari non servono. Ciò che serve è un aumento strutturale del finanziamento da affiancare a manovre straordinarie per riequilibrare un sistema universitario che ha visto una diminuzione dell’organico del 25% negli ultimi 10 anni: unico comparto della Pubblica Amministrazione ad aver subito un simile taglio. Qualche numero: per l’intervento straordinario (5mila RTD-B – i ricercatori di tipo senior – all’anno per 4 anni, e non le briciole, 1500, elargite una tantum quest’anno) servono 900 milioni di euro all’anno fino al 2023. Altri 800 milioni annui servirebbero dal 2024 in poi per garantire un flusso di 2500 ricercatori e ricercatrici. Questo sarebbe solo il finanziamento aggiuntivo per l’immissione in ruolo di nuovo personale necessario a far funzionare un sistema di istruzione superiore dignitoso. Da integrare con altre risorse, necessarie per creare le condizioni in cui la ricerca possa svilupparsi. È pronto il governo ad aggiungere almeno 2 miliardi al Fondo di finanziamento ordinario? È pronto a fare questa scelta politica? I soldi ci sarebbero, basta prendere il bilancio della spese militari, 25 miliardi nel 2018, in aumento di 1 miliardo rispetto al 2017.

Questi sono i provvedimenti concreti di cui dovrebbero discutere Fioramonti e Valditara se davvero volessero limitare la precarietà. Qualunque altra discussione ha in realtà un altro fine: l’eliminazione del precariato storico e un ricambio più “dinamico” di ricercatori usa e getta. Prima si potevano sfruttare 12 anni, ora solo 5, ma basta aumentarne la quantità e il rapporto precari/strutturati rimane lo stesso. Il loro fine consiste nel portare a termine la trasformazione dell’Università iniziata con la Gelmini nella direzione indicata dalla fondazione Treellle: un sistema universitario in stile neoliberale, al soldo degli interessi privati.

Riusciremo ora a creare una grande mobilitazione di tutti i precari e le precarie? Riusciremo a respingere al mittente la guerra fra poveri che tentano di innescare fra aspiranti neo-precari e precari di lunga data? Riusciremo a sostituire la cooperazione e la solidarietà all’individualismo e alla competizione? Queste questioni sono urgenti, anche perché per gran parte dei precari questa potrebbe essere l’ultima occasione per provare a cambiare le regole del gioco da dentro.

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