di Anna Costanza Baldry* e Anna Maria Giannini**

Si stima che ogni anno, nel mondo, vengano uccise per mano del partner o ex partner circa 13mila donne (fonte: Centro Reina Sofia para el Estudio de la Violencia di Valencia), anche se con buona probabilità si tratta di una stima per difetto, calcolata sulla base della popolazione femminile mondiale di età superiore ai 14 anni. In Italia sono circa 100 all’anno (fonte: ministero dell’Interno, Eures). È scontato pensare che non siamo circondati da malati mentali, e che quindi la causa di questa mattanza di donne vada ricercata altrove. Particolarmente importante è prendere in considerazione la complessità delle cause.

Il delitto d’onore, abrogato nel 1981, novellava che ammazzare la moglie, la figlia o la sorella adultera e libera era da considerarsi molto meno grave che uccidere qualunque altra persona (pena prevista da tre a sette anni). L’onore patriarcale era stato messo in discussione e dunque era da preservare, tutelare e ripristinare.

Proprio recentemente in Italia è stato portato a temine un progetto europeo coordinato dalla facoltà di Medicina e Psicologia di Sapienza Università di Roma dal titolo: Honour Ambassador Against Shame (HASP), al fine di approfondire il tema della violenza legata all’onore e disegnare modelli di formazione e sensibilizzazione. I dati emersi evidenziano quanto la violenza contro le donne legata a un presunto senso di difesa dell’”onore” sia ancora presente anche nel nostro Paese.

Fa riflettere la recente sentenza della Corte d’Appello, inerente il femminicidio commesso a RiccioneNon è nostra intenzione commentare la decisione, ma portare l’attenzione sul vissuto delle vittime coinvolte in questa tragedia: figli, genitori, parenti, amici, tutti coloro che si sono visti strappare gli affetti più cari e quanti vivranno l’ “ergastolo del dolore” perché proseguiranno il loro cammino di vita nel dolore. Per chi resta e vive un lutto così grave, diventa fonte di ulteriore dolore non vedere riconosciuta in pieno una sofferenza di tale portata.

Se negli anni i cambiamenti sociali, legislativi, culturali hanno radicalmente migliorato le relazioni di potere tra uomini e donne, i femminicidi sono rimasti stabili come numerosità, anche in presenza di un calo del 50% degli omicidi nel nostro Paese negli ultimi 40 anni. A prescindere dalla nazionalità e dalle condizioni socioculturali e psicosociali degli autori, qualcosa lega questi casi in maniera trasversale e li accomuna tutti: il potere nelle relazioni di (ex) coppia dell’uomo sulla donna.

L’onore non è più “antico” ma individuale e misogino, l”io” ferito di chi non accetta di essere stato lasciato perché – dopo un mese o 50 anni – lei ha scelto la libertà, l’autodeterminazione, ovvero di mettere se stessa e i propri bisogni e desideri prima dell’accondiscendenza incondizionata, anche se sincera, verso il partner. Chi alza la testa e sceglie per sé va punito e ricondotto al proprio ruolo subordinato. L’individuo che uccide non regge l’affronto: non vuole o non ha gli strumenti. Si trova in una situazione che lo fa vacillare. Ammazzare qualcuno è allora una scelta irreversibile: sancisce per sempre il potere di decidere per la vita di un altro essere umano, che sia la propria (ex) compagna, moglie, o fidanzatina. “Ho perso la testa, sono troppo ‘geloso’, ha avuto un raptus”, raccontano quando in molti dei casi quando confessano. “Non capivo quello che cosa stava accadendo”. Prima, raramente chiedono aiuto.

Le istituzioni, da anni, investono tempo e denaro nell’importantissima formazione di svariate figure professionali dedicate alla gestione di questi casi, garantendo loro più strumenti per intervenire negli episodi di violenza. Sono stati attivati tavoli di confronto e di lavoro di grande potenzialità, dove deve rientrare anche la magistratura. Il sostegno ai centri antiviolenza, ai centri di aiuto per gli stalker e gli uomini maltrattanti costituisce un altro punto nodale.

Il radicale cambio delle generazioni future avverrà solo quando i giovani, gli uomini, non relegheranno il termometro del proprio valore al grado di potere esercitato sulla (ex) partner alla propria forza e superiorità. A quel malinteso senso dell’onore che oggi, ripetiamolo, ha una veste più individuale e privata rispetto a quello di un tempo, e che tuttavia porta chi si ritiene offeso a uccidere – e nel 30% dei casi a suicidarsi subito dopo. Non è una battaglia, una sfida fra uomini e donne.

Infine, pensiamo a chi rimane. A quegli ‘orfani speciali’ che restano soli dopo la tragedia che avvolge queste vicende. Alla vita che viene loro lasciata in eredità. Quante vittime dietro quelle che qualcuno chiama “tempeste emotive”?

*Professore Ordinario Dipartimento di Psicologia Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana
**Consigliera dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, Professore Ordinario di Psicologia Generale, Direttore del Servizio di Psicologia Giuridica e Forense Università di Roma Sapienza

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