L’altro giorno si sono riunite tutte le federazioni degli ordini professionali della sanità per un totale di un milione e mezzo di operatori, per dire “no” al regionalismo differenziato, mentre, nello stesso giorno, a dire inspiegabilmente “sì”, spiazzando tutti, sarebbe stata proprio la ministra della Salute Giulia Grillo.

Ma come? Il M5S in tutti i suoi programmi ha sempre difeso l’unità e l’integrità del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn). Si è per caso convertito per ragioni di governabilità alla linea secessionista del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna? Spero di no, perché se così fosse sarebbe un autentico tradimento che deluderebbe tutti coloro che hanno votato M5S per difendere il Ssn universale e solidale, per dare al Sud gli stessi diritti del Nord, per mettere fine alle politiche controriformatrici del Pd. Dare luogo al regionalismo differenziato per la sanità significherebbe una pericolosa deregulation su gangli vitali della sanità pubblica e quindi aprire la porta al Far West.

La responsabilità politica della ministra 5stelle in questo senso è enorme. La mia impressione, a leggere i commenti di questi giorni, soprattutto dei ministri interessati, è che la partita sia troppo politica per essere delegata ai ministri e che essa per essere governata abbia bisogno di una proposta innovativa, cioè di uno sguardo strategico che entrambi i ministri, Affari regionali e Salute, mostrano – da quel che si legge – di non essere in grado di garantire.

Sia il M5S che la Lega con il regionalismo differenziato si trovano in una brutta posizione politica. Se dovesse passare, il M5S avrebbe tradito la maggior parte del suo elettorato (quindi il Sud per intero) e per giunta su un tema delicato come il diritto alla salute, mentre la Lega resterebbe il vecchio partito del Nord, contraddicendo la sua vocazione nazionalista e quindi perdendo il potenziale consenso del Sud.

Sono convinto che la partita debba essere presa in mano dai big a partire dal presidente del Consiglio dei ministri, da Matteo Salvini e da Luigi Di MaioA loro, secondo me, converrebbe un “accordo di desistenza” pur senza negare i problemi sul tappeto, al fine di mettere al sicuro per prima cosa l’unità del governo, ma anche per garantire – se possibile – delle risposte efficaci. Quindi una desistenza giudiziosa e avveduta. Ma per fare ciò non bastano le volontà: ci vogliono le idee, non le chiacchiere.

Ho già detto a più riprese in questo blog che per me le soluzioni per fare un accordo intelligente ci sarebbero eccome, ma per volerle prima è necessario che siano concepibili. Per cui non voglio ripetermi. Ora mi limiterei a spiegare il nodo politico della questione per capire come scioglierlo politicamente.

Le regioni incalzate dai problemi di sostenibilità non vogliono più “autonomia”, come dicono, per fare meglio: vogliono più “autarchia” per non avere limiti e fare quello che pare a loro. Esse desiderano impossessarsi in modo esclusivo di certe podestà dello Stato centrale su temi nazionali per definizione, come il lavoro, le professioni, le prestazioni, i servizi. Quindi il loro vero scopo non è stare nel decentramento amministrativo, ma uscire dal decentramento per acquisire i poteri che non hanno mai avuto. Una manovra che, usando un’iperbole, potremmo definire un colpo di Stato.

Il problema vero per i cittadini è che lo Stato, perdendo dei poteri, non è più garanzia per tutti, Nord e Sud nello stesso modo. Cioè i cittadini perdono la garanzia dell’universalismo e del diritto a essere curati nello stesso modoFaccio un esempio: le Regioni, in barba a ciò di cui ha bisogno veramente un malato, per risparmiare stanno cercando da tempo di pasticciare con i profili professionali degli operatori, togliendo competenze alle professioni che costano di più per darle alle professioni che costano di meno, o mettendo nei servizi professioni potenziate con qualche corso locale, o sostituendo addirittura professioni con altre professioni. Con il regionalismo differenziato questi pasticci diventerebbero legali, per cui le Regioni potrebbero addirittura decidere sui ruoli e sugli impieghi delle professioni, fino ad avere medici e infermieri diversi da Regione a Regione.

Tutto questo sarebbe un grave danno all’universalismo: avere il ruolo di medico uguale in tutta Italia, quindi inquadrato nello stesso modo e con la stessa prassi attesa, è un modo per garantire a tutti i cittadini la stessa prestazione. Cioè la stessa tutela. La mediazione che ci serve è riconoscere autonomia alle Regioni ma senza rinunciare alla funzione universalistica dello Stato centrale. Come?

Il regionalismo differenziato, infine, pone tanto alla Lega quanto al M5S grandi contraddizioni sul piano della democrazia. Esso in pratica, come ha dichiarato Luca Zaia, è una “riforma costituzionale”. Come è possibile in sanità fare una riforma costituzionale senza sentire i cittadini e senza sentire gli operatori?

Per la Lega è naturale che per la Tav si faccia, se necessario, un referendum, ma non per una riforma costituzionale come quella rappresentata dal regionalismo differenziato. Per il M5S vale la democrazia diretta, ma sul regionalismo differenziato, cioè su una riforma costituzionale tanto delicata, la ministra Grillo non ha aperto nessuna consultazione. Un errore politico. Se la ministra in questo confronto difficile avesse alle spalle le grandi professioni, i sindacati, le grandi società scientifiche, il confronto sarebbe oltremodo diverso. Ma per avere alleanze, bisognerebbe prima saperle fare.

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