Pur non essendo mai stato condannato per reati di associazione mafiosa Francesco Paolo Alamia, costruttore e immobiliarista originario di Villabate, è stato considerato dagli inquirenti di Palermo prestanome di Vito Ciancimino e socio di Marcello Dell’Utri. Oggi i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo hanno eseguito un provvedimento di la confisca di immobili e terreni, imprese, rapporti finanziari con disponibilità liquide di circa 900mila euro e auto, per un valore complessivo di oltre 15 milioni su ordine della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo.

L’indagine è stata condotta dai finanzieri del Gico, che in tre anni hanno messo al setaccio atti giudiziari e informazioni patrimoniali che riguardano un arco temporale di oltre 50 anni. La ricostruzione da parte dei giudici della Sezione misure di prevenzione del Tribunale, sulla base degli accertamenti delle fiamme gialle, ha consentito di riscrivere una parte della storia economica, imprenditoriale e politica del Paese.

È stato necessario analizzare le dichiarazioni di decine di collaboratori di giustizia, rianalizzare gli esiti processuali del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia così come quelli della vicenda collegata all’immobiliare Inim, coinvolta nella speculazione edilizia di Peschiera Borromeo, nel milanese, e a decine di fallimenti, per arrivare a una visione di insieme di fatti, accaduti anche grazie a quello che i giudici definiscono il “silenzio garantito dalle lungaggini processuali“, su un soggetto che lo stesso Paolo Borsellino nel 1992 diceva di sapere in affari con Vito Ciancimino.

Pur non essendo mai stato condannato per reati di associazione mafiosa, Alamia è considerato negli anni ’70 e ’80 socio e prestanome di Vito Ciancimino, nonché imprenditore di riferimento di Provenzano e Riina, socio di Marcello Dell’utri e in contatto con mafiosi del calibro di Antonino Cinà, Saro Riccobono, Salvatore Micalizzi. Considerato vicino a uno dei più spietati killer di Ciaculli, Pino Greco detto ‘scarpuzzedda’, Alamia, all’epoca definito “oscuro ragioniere di Villabate”, fu l’azionista di controllo e il rappresentante legale della storica Inim – Internazionale immobiliare Spa, costituita a Palermo nel 1976 e poi trasferita a Milano, allora considerata potenzialmente “il terzo gruppo italiano in campo immobiliare”.

La società si occupò dell’acquisto di grandi aziende fallite e dei relativi pregiati terreni, resi edificabili in Lombardia, Piemonte e Lazio, per grandi operazioni di speculazione immobiliare ad alto tasso d’utile. Nell’operazione Dell’Utri, stando alle indagini della Procura di Palermo, “fungeva da mediatore tra l’imprenditoria milanese e la mafia, mentre Alamia ne avrebbe rappresentato gli interessi. Gli stessi indagati o coimputati Filippo Alberto Rapisarda, Rocco Remo Morgano, Gioacchino Pennino e Tullio Cannella hanno indicato Alamia quale soggetto vicino a Cosa Nostra pur non essendo formalmente affiliato. Alberto Rapisarda, coinvolto con Alamia nel processo sul fallimento della storica azienda alimentare piemontese Venchi Unica, per sfuggire a un mandato di cattura era stato ospitato in Venezuela dal clan Caruana-Cuntrera”.

Come ricostruito dal Gico di Palermo, nei confronti di Alamia “rilevano” le dichiarazioni rese dai collaboratori nell’ambito delle indagini relative alla scomparsa dell’imprenditore Antonio Maiorana e di suo figlio, avvenuta nell’agosto del 2007. All’indomani della scomparsa, l’attenzione degli investigatori si è rivolta al mondo in cui aveva sempre gravitato Maiorana, “ovvero proprio quello delle iniziative edilizie portate avanti da Alamia con l’appoggio di Ciancimino: si tratta – si legge nella nota degli investigatori – della realizzazione, in pieno periodo del cosiddetto ‘sacco di Palermo’, di numerosi complessi immobiliari (quelli ubicati in via Roccaforte, in via Empedocle Restivo, in via Duca della Verdura, in viale Regione Siciliana, in via Scobar, in via Platen, in Piazza Principe di Camporeale, in via Lulli, in piazza Verdi), delle ville di contrada Inserra, ma anche della Baia degli Emiri a Cefalù (Palermo), oltre a numerose altre costruzioni sparse per la provincia. Le società che cambiavano il volto alla città, secondo il meccanismo ricostruito dagli investigatori, svanivano in poco tempo nel nulla, senza versare soldi alle casse dello Stato o finendo coinvolte nei vari fallimenti del gruppo Alamia, arricchendo l’ingegnere di Villabate e la mafia“.

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