Il bambino ferito è stato un fuori programma non previsto. Alla base dell’omicidio di Fabio Giuseppe Gioffré, l’allevatore ucciso nella Piana di Gioia Tauro il 21 luglio scorso, c’era un’estorsione che le cosche stavano compiendo ai danni di un frantoio. Un omicidio di ‘ndrangheta e allo stesso tempo il tentativo da parte della vittima di farsi giustizia da solo appoggiato dalle cosche “amiche”. A due mesi esatti dall’agguato nelle campagne di Seminara, il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, l’aggiunto Gaetano Paci e il sostituto procuratore della Dda Adriana Sciglio hanno chiesto e ottenuto dal gip l’arresto di tre persone di cui una, Domenico Fioramonte di 41 anni, è accusata di omicidio, porto e detenzione di armi. Gli altri due, Giuseppe Domenico Laganà Comandé, di 20 anni, e Saverio Rocco Santaiti, di 58, rispondono di estorsione aggravata dalle modalità mafiose.

Sul contesto della criminalità organizzata non ci sono dubbi. Il giovane Laganà, infatti, nei mesi scorsi era stato denunciato – assieme al padre che invece era stato arrestato – perché nel suo pollaio i carabinieri avevano trovato una pistola calibro 38 con matricola abrasa e alcune munizioni di kalashnikov.

Non è un caso che in manette sia finito anche un pezzo da novanta della cosca Santaiti. Saverio Rocco Santaiti, catturato in provincia di Varese. Gli investigatori più volte hanno definito come “una personalità guida” della famiglia di ‘ndrangheta protagonista in passato di una feroce faida a Seminara, un boss che da detenuto riusciva a mantenere i contatti con gli altri affiliati. L’inchiesta prende le mosse dall’operazione “Ares” che pochi giorni prima dell’omicidio aveva evidenziato l’influenza delle cosche di Rosarno sulle attività delittuose nella Piana di Gioia Tauro e nei comuni aspromontani. 

Riascoltando le intercettazioni contenute nei brogliacci di quell’inchiesta, è emerso che il capocosca arrestato oggi era in contatto pure con Fabio Giuseppe Gioffré, ucciso con un fucile caricato a pallettoni mentre si trovava in un terreno di sua proprietà in contrada Venere di Seminara. Il killer non era un professionista e, forse per questo, nell’attentato è stato ferito anche un bambino di 10 anni, di nazionalità bulgara, che si trovava in quel momento con Gioffré e che di solito lo accompagnava per vedere gli animali che la vittima custodiva in un casolare. Le sue condizioni erano gravi ma è riuscito comunque a salvarsi.

Pregiudicato di 39 anni, Gioffré è morto sul colpo mentre il killer è allontanato a piedi. Le indagini, sin dalle prime battute, hanno evidenziato il carattere controverso dell’allevatore ucciso che era imparentato con i boss omonimi conosciuti con il soprannome di “‘Ndolu”. Fabio Giuseppe Gioffré era un cane sciolto e, per dirla con le parole ascoltate in un’intercettazione di qualche anno fa, era un “bastardo che non guarda in faccia nessuno”.

Coinvolto nell’inchiesta “Artemisia” e condannato in primo grado e in appello, suo padre Vincenzo Giuseppe Gioffré, detto “Siberia”, è morto prima della sentenza di Cassazione. Non era un boss ma, per i magistrati, era comunque uno che contava negli ambienti criminali della zona.  “Il passato di Cecé ‘Siberia’ – scrivono gli investigatori – è possente”. Era lui che cercava di rimediare alle intemperanze del figlio Fabio che, stando agli atti della Dda, in più occasioni ha messo in imbarazzo i boss della sua famiglia.

Ritornando agli arresti di oggi, le indagini della Dda hanno consentito di ricostruire la dinamica dell’agguato in cui è stato ferito il bambino invitato proprio da Fioramonte ad allontanarsi. Non era lui il bersaglio. Tuttavia chi ha premuto il grilletto del fucile non ha avuto remore a farlo nelle vicinanze del piccolo che è rimasto ferito.

Adesso si cerca il complice di Domenico Fioramonte, titolare di un frantoio a Seminara, ritenuto contiguo alla cosca Grasso di Rosarno. Le intercettazioni e l’attività investigativa dei carabinieri hanno inquadrato quel colpo di fucile nell’ambito delle dinamiche estorsive poste in essere dai gruppi Laganà e Santaiti che, in alcuni momenti storici sono stati contrapposti alla cosca Gioffré a cui apparteneva la vittima.

In sostanza, i Laganà e i Santaiti stavano strozzando il titolare del frantoio che aveva chiesto protezione ai Grasso. È a questo punto dell’estorsione che sarebbe entrato in scena Fabio Giuseppe Gioffré il quale avrebbe garantito alla cosca Grasso di portare al loro cospetto i soggetti che stavano taglieggiando Fioramonte. Il figlio di “Siberia”, infatti, si è messo in una posizione delicata e ambigua e, probabilmente, anche interessata alla vicenda estorsiva. Nella famiglia Fioramonte, infatti, c’era chi aveva riposto fiducia nella capacità di mediazione del Gioffrè e chi, invece, era infastidito della sua intromissione.

L’omicidio di Gioffré, secondo gli inquirenti, è stata la reazione sanguinaria dei Fioramonte alle continue estorsioni subite da parte delle cosche di Seminara. Un colpo di fucile con il quale il titolare del frantoio voleva dimostrare di possedere la stessa capacità criminale dei suoi aguzzini. La mattina dell’agguato, inoltre, c’era stata una lite tra la vittima e il presunto killer. A casa di suo fratello, Salvatore Fioramonte, oggi i carabinieri hanno trovato un revolver calibro 38 con matricola abrasa nascosta all’interno del garage. Anche per lui, quindi, sono scattate le manette.

“Stiamo parlando di un imprenditore – spiega il procuratore Bombardieri durante la conferenza stampa – che subisce un’estorsione, non denuncia e si rivolge ai mafiosi. È stato un omicidio che non sembrava di facile comprensione anche perché la figura del morto si colloca in una posizione ambigua”.

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