Dunque, la partita Donald Trump-Vladimir Putin si giocherà in trasferta lunedì 16 luglio ad Helsinki, il giorno dopo la finalissima del Mondiale. In attesa di questo scontro spacciato per cruciale e che potrebbe determinare i destini del globo della settimana successiva (Trump smentisce sempre quel che dice entro sette giorni) si sta scatenando la feroce ironia del web sulla sconfitta della Germania ad opera dei tonici sudcoreani: “I tedeschi non imparano mai la lezione della Storia: gli succede sempre la stessa cosa ogni volta che vengono in Russia”. Il sarcasmo si spreca, le battute dei tifosi italiani frustrati affollano Facebook. A me ricorda la disfatta di Middlesbrough, nel 1966, quando un dentista nordcoreano che giocava a calcio ci rimandò a casa; mi viene in mente Gianni Rivera che fu additato al pubblico ludibrio (l’abatino di breriana memoria) e lo sventurato ct Edmondo Fabbri bersagliato dai pomodori. Dirò di più: siamo gli unici ad essere stati sconfitti dalle due Coree. Quando possiamo, ce la mettiamo tutta.

Dunque, Joaquim Loew, il 58enne allenatore della Germania – uno che guadagna 3 milioni e 800mila euro l’anno – ha preso una bella lezione dal collega più giovane Sin Tae Yong (47 anni) che guadagna appena 450mila euro. Siamo tutti molto curiosi di sapere quanto incassano i campioni e quanto valgono i loro club o le nazionali in lizza al Mondiale. Poco, invece, sappiamo di chi li allena e li ha portati a Russia 2018. Dodici delle 32 squadre hanno allenatori stranieri. Vanno molto gli argentini. Come Ricardo Gareka detto “El tigre” guida il Perù (eliminato ma con onore), ha 60 anni e guadagna 1,1 milioni di euro l’anno. Come José Pekmerman (68 anni) uno stipendio di 1,5 milioni per guidare la Colombia. O Hector Cuper (62 anni), mitico “El hombre vertical” – lo dissero a Sandro Pertini dopo una visita in Messico e lui ne fu sempre orgoglioso. Ha avuto l’ingrato compito di tenere a bada le bizze di Mohamed Salah (in cambio, però di un milione e mezzo l’anno): missione fallita ed eliminazione. Per giustificare i soldi mal spesi, i dirigenti federali egiziani hanno detto che il Ramadan ha danneggiato il rendimento della squadra. E liquidato Cuper.

Lo stipendio medio dei 32 allenatori mondiali è di 1,3 milioni l’anno, ma le differenze sono notevoli. La metà incassa più di un milione l’anno. Nove meno di 500mila. Lo svedese Janne Andersson (45 anni), che ci ha eliminato, porta a casa 450mila euro, un quinto di Roberto Mancini. Il croato Zlatko Dalic (51 anni ben portati) poco di più, 550mila. Lo spagnolo Roberto Martinez (44 anni), ct del poderoso Belgio, 930mila come il giapponese Akira Nishima, mentre una nostra vecchia conoscenza, Vladimir Petković detto “Il professore” – 54 anni ed ex allenatore della Lazio con la quale vinse la Coppa Italia del 2013 – si accontenta di 850mila euro per pilotare le ambizioni della sua coriacea Svizzera. Siamo lontani dagli assegni del brasiliano Tite, 57 anni e 3,4 milioni, o di Didier Deschamps (49 anni) che ne piglia altrettanti. Un po’ meno toccano allo spagnolo Fernando Hierro (50 anni), tre milioni secchi secchi, mentre il russo Stanislav Cherchesov (54 anni) ne prende 2,6. Tra i paperoncini della panchina, ecco il portoghese Fernando Santos, 54 anni e 2,2 milioni, l’inglese Gareth Southgate, 47 anni e 1,9 milioni. Nono nella graduatoria dei più pagati troviamo il discusso trainer dell’Argentina, Jorge Sampaoli (58 anni), a quota 1,75 milioni, poco più del più anziano della combriccola, l’uruguagio Oscar Tabares, 71 anni per un compenso di 1,7 milioni. Vogliamo poi parlare dello spagnolo Juan Antonio Pizzi? Si è salvato per il rotto della cuffia quando la sua Arabia Saudita ha battuto l’Egitto: ha 50 anni e intasca 1,4 milioni. Duecentomila più dell’olandese Bert van Marwijk (66 anni) ct dell’Australia, che prima allenava proprio l’Arabia. È una consorteria mercenaria di tattici e strateghi del pallone, pronti a difendere la bandiera del più generoso. In dollari, meglio però in euro.

Il più povero di questo ristretto consorzio è anche il più giovane dei “mister”: Aliou Cissè, pirotecnico e simpatico ct del Senegal che assomiglia molto a un cantante reggae, ha 42 anni e un incarico pagato appena 200mila euro l’anno. Ex capitano della squadra, ha mantenuto il cipiglio del condottiero che lo identificava in campo. Si porta appresso, come bagaglio morale, una memoria indelebile, quella del naufragio di un traghetto, lo Joola, al largo della Gambia. Successe nel settembre del 2002, quando perse quasi tutta la famiglia, insieme ad altre mille persone. In lui, molti vedono una figura simbolica, quella del riscatto del Senegal. L’ex ct Bruno Metsu, scomparso nel 2013 per un cancro, riuscì a portare i “leoni della Taranga” a uno storico quarto di finale mondiale nel 2002. Aliou è convinto che il suo gruppo possa ripetere l’impresa, “e tenere alta la bandiera dell’Africa. Non so quando, ma un giorno il nostro continente vincerà il suo primo Mondiale”.

Ma ben altre partite continuano a essere giocate a porte chiuse in Russia, con il risultato già scontato. Quella, per esempio, per zittire chi si ostina a far ricerca storica e a difendere i diritti umani. Da un lato, come se ci fossero dieci Ronaldo e il portiere dell’Inghilterra. Dall’altra, deboli e anziani ometti che cercando disperatamente di non soccombere. Ma il risultato è scontato. L’arbitro sta dalla parte del più forte. Fuor di metafora, passa in sordina l’ennesimo arresto contro chi si affanna a non dimenticare ciò che fu e ciò che potrebbe ripetersi, se non si vigila e se ci si fa manipolare dalla melassa mediatica e dalle distrazioni di massa. Come il Mondiale, sorta di nebbia che copre l’altra faccia della Russia e sfuma gli aspetti più bui della sua storia.

Ieri, infatti, hanno fermato a Olonets il professor Yuri Dmitriev, storico e capo della Ong Memorial in Carelia. Ricordo che Memorial è rimasta, a fatica e sempre sotto attacco da parte delle autorità, l’unica associazione per i diritti umani e intellettuali e per lo studio dei totalitarismi in Russia e nei Paesi dell’Est. Più volte è stata accusata d’essere “agente straniero”, al soldo cioè di chi vuole indebolire e disonorare la Russia. Guarda caso, un mantra tipicamente sovietico. Insomma, Memorial (c’è una sede pure in Italia) è una Ong scomoda assai, tant’è che l’attività della fondazione è duramente ostacolata e soggetta a costanti intimidazioni. Come dimostra il clamoroso e sconcertante caso del professore Dmitriev.

Perché è finito di nuovo in cella? Perché ha violato le restrizioni del soggiorno obbligatorio che deve scontare dopo che ad aprile il tribunale di Petrozavodsz, la città dove abita, l’aveva condannato a due anni e mezzo per possesso illegale di armi e per sospetta produzione di materiale pedopornografico, basandosi sul fatto che erano state trovate nove foto di sua figlia undicenne nel pc del professore e che quindi abbia compiuto atti di depravazione con il coinvolgimento della minore. Non bastasse, la Procura ha anche tentato di dimostrare che lo studioso è un malato di mente: cosa che invece le perizie psichiatriche hanno negato.

Altro che trama kafkiana. Siamo ripiombati ai metodi ben collaudati al tempo delle persecuzioni staliniane. La colpa di Dmitriev è quella di aver scoperto una fossa comune in Carelia, dove sono stati trovati 9mila corpi. E questo oggi come oggi – in piena rinascita dell’orgoglio nazionale e di un risorgente neo-slavismo, con il tentativo di riabilitare Stalin, esaltandone il ruolo di “padre” della grande guerra patriottica e della sconfitta del nazismo – lo ha messo in rotta di collisione con il Cremlino, che sospetta di chiunque cerchi invece di fare piena luce sul passato.

Le accuse costruite contro Dmitriev sono a dir poco grottesche, surreali. Peraltro, risalgono a un anno fa. L’esperto nominato dal tribunale non se l’era sentita di avallare una simile porcheria e aveva giudicato che in quelle foto non vi era niente di pornografico. Lo stesso giudizio era stato ribadito una seconda volta. Poi, all’improvviso, il 27 dicembre il tribunale impone un nuovo esame, il terzo. Accompagnata da un’ennesima perizia psichiatrica coattiva di Dmitriev, al centro di malattie mentali Srbskij di Mosca. Parallelamente, nei confronti dello storico si è scatenata una campagna mediatica per screditarlo, dicendo che percepisce denaro tramite una Ong filo-occidentale (la scomoda Memorial da tempo è nel mirino di Putin, che ha fatto chiuder parecchie sedi) in cambio di raccontare in modo falso e distorto la storia dell’Unione sovietica. Tutto, per colpire Putin. Oggi si cerca di far passare la notizia che Dmitriev intendesse scappare in Polonia. In realtà si era recato a Wilga, nella regione di Prionezhsky, dove sono sepolti alcuni suoi amici, e poi era andato al monastero Svirsky.

Quanto alla Carelia, faccio una digressione. E svelo una trasgressione. Quella del commercio clandestino – fiorente in Carelia – di prodotti alimentari sotto sanzione e bellamente contrabbandati, alla faccia di Trump. Corruzione a go-go di funzionari statali. Investimenti di Gazprom che ha acquistato 37,7 ettari e il resort Dune sulle rive del Golfo di Finlandia (territorio di Sestrorestk, cittadina inclusa nei confini amministrativi di San Pietroburgo) a meno di 30 chilometri dall’avvenieristico sito del Lakhta Center, la futura sede del monopolio del gas. Russia 2018 è un caleidoscopio di storie, di personaggi, di contraddizioni laceranti. Le memorie del sottosuolo non si esauriscono mai, questo è il destino russo, il delitto e il castigo di un popolo che non riesce ancora a liberarsi dei suoi demoni.

P.s.
Fëdor Dostoevskij è uno dei miei autori preferiti.

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