Ha mandato una lettera ai giudici per spiegare che lui quel reato non l’ha commesso. Dunque merita di essere assolto dall’accusa di minaccia e violenza a corpo politico dello Stato. Al processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra arriva l’autodifesa di Leoluca Bagarella, il sanguinario boss dei corleonesi che ha spedito alla corte d’assise una memoria difensiva autografa. Una lettera in cui, “pur rinviando all’arringa dei difensori“, chiede “comunque di essere assolto dal reato contestato per non averlo commesso”. A renderlo noto, all’inizio dell’udienza, è stato il presidente della corte, Alfredo Montalto.

Noto, in passato, era stato l’intervento di Bagarella durante un processo in corso a Trapani , quando aveva annunciato l’inizio di uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis. Una sorta di proclama che aveva destato scalpore perché il boss aveva accusato i politici di averli “umiliati“, “vessati“, “strumentalizzati” e “usati come merce di scambio“. Ai giudici del processo sulla Trattativa i pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene hanno chiesto di condannare Bagarella a 16 anni di carcere. Il cognato di Totò Riina è l’uomo che guidò i corleonesi dopo l’arresto del capo dei capi, il 15 gennaio del 1993. C’è Bagarella ai vertici di Cosa nostra quando bombe e stragi escono per la prima volta dalla Sicilia e colpiscono Roma, Firenze e Milano. È Bagarella che a un certo punto ispira la nascita di Sicilia Libera, il movimento che doveva rappresentare le istanze dei mafiosi nel mondo politico. Ed è sempre il padrino corleonese che a poi dirotta il sostegno di Cosa nostra sulla neonata Forza Italia. 

Dopo la requisitoria dei pm e le arringhe delle parti civili, dunque, all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo è toccato ai legali degli imputati prendere la parola per cominciare a esporre le arringhe difensive. A cominciare dall’avvocato Vincenzo Musco, che difende, con il collega Basilio Milio, il generale Mario Mori, per il quale i pm hanno chiesto una condanna a 15 anni di carcere. Il legale ha definito il processo in corso “una duplicazione del procedimento” in cui l’ex alto ufficiale dei carabinieri ed ex numero uno del Sisde era stato assolto definitivamente dall’accusa di non avere fatto catturare nel 1995 l’allora boss mafioso latitante Bernardo Provenzano. Musco e la difesa di Mori puntano sull’articolo 649 del codice di procedura penale – cioè il cosiddetto ne bis in idem – secondo cui “un imputato prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345″.

Secondo Musco il capo di imputazione per Mori, accusato di minaccia a corpo politico dello Stato, “è identico” a quello nel processo in cui era accusato di favoreggiamento a Cosa nostra che si è concluso con l’assoluzione in Cassazione.  “Questa eccezione doveva essere fatta all’inizio dle processo, ma non c’era ancora una cristallizzazione della materia processuale”. ha aggiunto l’avvocato. Che poi ha citato il caso di Salvatore Cuffaro. L’ex governatore ha scontato una condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra: “L’applicazione dell’articolo 649 del Codice di procedura penale – dice  Musco- è avvenuta proprio qui, in questa città, a Palermo, con riferimento a personaggi illustri. E mi riferisco alla sentenza Cuffaro e al suo proscioglimento dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il gup di Palermo Vittorio Anania ha prosciolto l’ex governatore dal reato di concorso esterno ritenendo che l’imputato sia già stato giudicato per gli stessi fatti con sentenza definitiva”.

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