I nuovi sacchettini per l’ortofrutta sono biodegradabili, compostabili e quasi ovunque si possono usare per la raccolta dell’organico, ma nella realtà prenderanno sempre più spesso la via della discarica. Possibile? Sì, perché il governo ha reso obbligatorie e a pagamento queste bustine per gli alimenti sfusi nei supermercati dopo aver cominciato a incentivare (in accordo con le politiche energetiche dell’Ue) gli impianti per la produzione di biogas e biometano dai rifiuti organici, dove però i sacchettini creano più di un problema e vengono quindi eliminati in ingresso. Così, ci troveremo di fronte a due strade sempre più divergenti: da una parte cresceranno rapidamente questi impianti, dall’altra avremo 25mila tonnellate di sacchettini da gestire in qualche modo. Aspetti non valutati dal ministero dell’Ambiente prima di infilare questa estate l’emendamento balneare della legge di conversione del decreto Mezzogiorno. Il testo, infatti, è stato scritto senza chiedere un parere di merito al braccio scientifico del dicastero, l’Ispra: il ministro ripete che la misura “fa bene all’ambiente”, ma una valutazione tecnica avrebbe potuto far emergere, oltre ai pro, anche i contro della scelta. A partire proprio dalle criticità per gli impianti e i tempi lunghi di biodegradabilità nel mare, fino all’esortazione dell’Onu ad abbandonare l’usa e getta piuttosto che promuovere le bioplastiche.

L’impianto di Bolzano: “Non buttate l’umido nei sacchettini” – Mentre i consumatori stavano ancora prendendo le misure con la novità, dalla società di igiene urbana di Bolzano Seab è partito l’allarme: “Da noi i cosiddetti sacchetti ecologici non sono adatti per la raccolta dell’organico. Utilizzate quelli in carta”. Il motivo? “Il tempo di degradazione di questi sacchi ecologici, significativamente più lungo rispetto agli altri materiali raccolti, influirebbe sull’intero processo. Inoltre, questi sacchi spesso si incastrano tra le lame del frantumatore causando dei guasti al sistema”. L’impianto in questione tratta i rifiuti umidi attraverso una fermentazione senza ossigeno: si chiama digestione anaerobica e rispetto ai vecchi impianti per il semplice compostaggio (fermentazione aerobica) dell’umido permette di ottenere, oltre a un ammendante per l’agricoltura, anche energia in forma di gas. Per questo, anche per effetto degli incentivi statali, è in corso una forte riconversione e nasceranno nel tempo anche nuovi digestori. Secondo l’Ispra, solo nel 2016 i rifiuti umidi trattati in maniera combinata sono cresciuti di oltre il 30% e il Consorzio italiano compostatori prevede che nel 2020 andranno a digestione anaerobica 5,7 milioni di tonnellate di organico urbano, contro gli 1,8 milioni di adesso. Non solo: ad oggi, su quasi 30 grossi impianti di questo tipo attivi in Italia, i due terzi usano la tecnologia definita tecnicamente “wet”, quella in cui i sacchetti danno più problemi.

Il viaggio dei sacchetti: dal compostaggio alla discarica – Il punto, spiega a ilfattoquotidiano.it Mario Grosso, docente al dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, è che “i sacchetti compostabili certificati ricevono il marchio dopo il test in un impianto aerobico, cioè di compostaggio, dove si disgregano in 90 giorni. Purtroppo però questo non implica che succeda la stessa cosa in un impianto di digestione anaerobica, dove le condizioni sono totalmente diverse e il processo più breve”. Non solo: “Se anche i sacchetti si disgregassero del tutto, molti impianti di questo tipo continuerebbero comunque a toglierli come fanno adesso perché si tratta di un materiale plastico e filamentoso che dà fastidio al funzionamento: si impiglia nelle lame, intasa le tubazioni”. E anche nei processi di compostaggio le buste vengono tolte in molti casi all’inizio: “In questo caso si fa soprattutto perché più del 40% dei sacchetti con cui i cittadini conferiscono l’umido continua a essere non compostabile”. È il problema delle buste contraffatte, che secondo Assobioplastiche rappresentano il 60% di quelle in circolazione. Così, anche dove i sacchetti biodegradabili e compostabili potrebbero trasformarsi in ammendante agricolo, vengono deviati in discarica: “All’ingresso degli impianti non è possibile distinguere le buste in regola da quelle fuori legge, e quindi si tolgono tutte”.

Il cittadino paga due volte – In Italia crescono pian piano le aree in cui si usano sacchetti in carta o addirittura, in qualche raro caso, direttamente i bidoncini, poi svuotati dagli operatori dell’igiene urbana. Ma i sacchetti biodegradabili rimangono la modalità più diffusa e in questi casi, dice a ilfatto.it – chiedendo di rimanere anonimo – il tecnico di una società che gestisce molti impianti di trattamento dell’organico, “il cittadino paga due volte: la prima al supermercato per il sacchetto, e la seconda nella tariffa rifiuti, visto che i costi di smaltimento degli scarti vengono ovviamente ribaltati in bolletta”. Non solo: “In media ogni sacchetto in plastica o bioplastica, quando viene tolto, si porta dietro materia organica pari a quattro volte il suo peso. Rifiuti che invece di diventare biogas vengono smaltiti. Dove ci sono molti sacchetti, si arriva al 30%-40% di rifiuto organico sprecato”, continua il professor Grosso.

“Bioplastiche biodegradabili in 90 giorni solo negli impianti” – Insomma, se i biopolimeri rimangono un’invenzione eccezionale perché permettono di ottenere manufatti a contenuto di materia fossile più contenuto, o addirittura al 100% rinnovabili, sui singoli usi delle bioplastiche è necessaria una valutazione. La stessa Rete europea delle agenzie ambientali, di cui fa parte anche l’Ispra, ha chiesto a Bruxelles “un approccio consapevole sull’uso delle bioplastiche”, evidenziando che per promuoverne “la produzione e l’uso su larga scala, questi prodotti dovranno misurarsi con il bisogno di essere completamente degradabili”. Requisito oggi assente.

Se infatti associazioni come Legambiente ritengono che i sacchettini per l’ortofrutta siano un passo avanti nella lotta all’inquinamento del mare dalle plastiche, per gli esperti del network europeo “le plastiche bioegradabili non possono essere considerate veramente biodegradabili al momento. Dati affidabili sugli effetti ambientali, in particolare sul suolo e sulle acque marine, non sono disponibili”. Numerosi studi scientifici a livello mondiale confermano i tempi molto lunghi necessari ai sacchetti in plastica biodegradabile per smembrarsi in mare. Tra gli ultimi c’è quello di un gruppo di scienziati dell’università di Pisa, pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment e condotto usando dei sacchetti biodegradabili e compostabili per la raccolta dell’umido, più spessi di quelli per l’ortofrutta ma più sottili delle buste distribuite alle casse dei supermercati. “Studi precedenti al nostro dimostravano che le buste, degradandosi, alterano la composizione e le caratteristiche del sedimento marino e la comunità microbica presente. Partendo da qui, ci siamo chiesti come questo fatto avrebbe potuto influenzare le piante che vivono in quegli ambienti in Mediterraneo”, spiega a ilfattoquotidiano.it la biologa pisana Elena Balestri. “Abbiamo allestito un esperimento in vasca considerando due specie di piante marine e ci siamo accorti che i frammenti di bioplastiche erano ancora presenti nei sedimenti dopo 6 mesi, e avevano modificato la concentrazione di ossigeno, pH e temperatura e alterato i rapporti tra le due specie. Queste alterazioni potrebbe influenzare la composizione delle praterie marine e anche dei popolamenti animali ad esse associati. Le nostre ricerche su questo tema vanno avanti per considerare sia la eventuale completa degradazione dei frammenti sia per osservare come tali processi possono influenzare le specie a lungo termine”.

Foto: Courtesy of Elena Balestri/Università di Pisa

 

Mancano standard per il mare – Sul comportamento in mare di questi nuovi materiali, dunque, molte domande devono ancora trovare una risposta. Dall’Istituto sui polimeri e biomateriali del Cnr, Mario Malinconico spiega a ilfattoquotidiano.it: “Premesso che bisogna scoraggiare l’abbandono delle plastiche nell’ambiente e che l’Italia è all’avanguardia nel settore delle bioplastiche, al momento i tempi di degradazione in un ambiente non controllato non sono prevedibili. In futuro saranno fissati degli standard anche per il mare: una plastica che sopravvive anche solo tre mesi potrebbe comunque creare problemi agli animali”. In questo quadro, dalle Nazioni Unite sono stati chiari, considerando anche il peso del fenomeno delle buste contraffatte: “Fino a che non c’è una definizione di biodegradabilità in mare accettata a livello internazionale, l’adozione di prodotti plastici etichettati come biodegradabili non porterà una diminuzione significativa né nella quantità di plastica che finisce negli oceani né rispetto al rischio di impatti fisici e chimici sull’ambiente marino”.

Il governo contro l’Onu: solo sacchetti usa e getta – Per l’Unep, il programma ambientale dell’Onu, “a salvare davvero il mare sarà il cambiamento dei nostri comportamenti. La cosa più importante è abbandonare la nostra mentalità usa e getta”. Un indirizzo che però il governo italiano ha totalmente ignorato. Dopo il no del ministero dell’Ambiente alla possibilità per i consumatori di portarsi da casa borsine riutilizzabili per l’ortofrutta al supermercato, è arrivato il sì del ministero dello Sviluppo economico e infine il passo indietro di quello della Salute: ammessi sono sacchettini usa e getta portati da casa, sulla cui conformità però il supermercato ha l’onere di vigilare. Un provvedimento inattuabile nella pratica, mentre sull’esclusione delle borsine riutilizzabili continua il dibattito. “È un provvedimento senza senso: si fa appello a ragioni igienico-sanitarie, ma parliamo di alimenti che non sono pronti per il consumo e devono essere prima lavati e sbucciati dal consumatore. Una mela o un pomodoro arrivano al supermercato già contaminati da una carica batterica, non sarebbe certo il fatto di metterli in una borsina riutilizzabile a creare problemi per la salute delle persone”, dice a ilfattoquotidiano.it Alessandro Del Nobile, docente di Scienze e tecnologie alimentari all’università di Foggia. E dall’associazione Comuni Virtuosi, che sette anni fa ha lanciato l’iniziativa “Mettila in rete” proprio a questo scopo, la responsabile campagne Silvia Ricci spiega: “Così non si ottiene alcuna riduzione dei rifiuti come invece chiesto dall’Europa e dall’Unep, e ci fa piacere che gli allarmi da noi lanciati da tempo ora vengano condivisi anche da altri soggetti. Questo bagno di sangue poteva essere evitato con un tavolo di ascolto preventivo di tutti i portatori di interessi e gli esperti in materia. Purtroppo il rischio da noi evidenziato di un approccio di disincentivazione economica che non va a colpire tutti i materiali monouso si sta concretizzando, perché la grande distribuzione sta in questi giorni massicciamente passando ai sacchetti di carta”.

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