L’associazione Antigone ha presentato lunedì il suo quarto Rapporto sulle carceri minorili italiane, ospitato sul nuovo portale www.ragazzidentro.it interamente dedicato alla giustizia penale minorile.

È un tema di cui non si sente molto parlare. Difficilmente i media raccontano cosa succede nel sistema della giustizia minorile, chi sono i ragazzi che vi entrano, come funziona l’esecuzione delle pene, cosa fanno i giudici, gli operatori, i servizi sociali. È ben più facile sentir parlare delle carceri per adulti che di quelle per i minori. Perché accade questo? Perché la giustizia minorile in Italia funziona. E allora, dov’è la notizia? Nessuna situazione drammatica, nessun caso eclatante, nessuna condanna da parte dell’Europa nei confronti delle istituzioni italiane, nessuna tragedia annunciata di suicidi o malattie non curate.

E invece dovremmo parlare della nostra giustizia penale minorile almeno per due motivi. Il primo è che essa costituisce qualcosa di cui possiamo e dobbiamo essere fieri di fronte all’intera Europa. Far conoscere il nostro modello significa sperare di riuscire a esportarlo, a diffonderlo, a migliorare altre condizioni con il nostro esempio. Il secondo è che, comunque e sempre, si può fare di meglio. E dunque è giusto discuterne e ragionarvi. Non è un caso che il titolo del Rapporto di Antigone sia “Guardiamo oltre”. Ci sono vari aspetti nell’esecuzione penale per i minorenni rispetto ai quali dobbiamo oggi guardare oltre.

Dal Rapporto emerge come, al 15 novembre, siano 452 i ragazzi detenuti nelle 16 carceri minorili italiane. Il carcere è qui realmente extrema ratio, cosa che certo non accade nel sistema degli adulti (dove i detenuti sono oggi oltre 58.000). Se, tra gli adulti, ogni cento persone segnalate dall’autorità giudiziaria si riscontrano circa 25 condanne e sono infine in 7 a entrare in galera, tra i minori i numeri scendono a 10 condanne e, di media, meno di 4 ingressi in Istituto.

Cosa c’è dunque che non va? Sicuramente l’incapacità anche del sistema minorile di superare la propria selettività. La scelta dei 4 che entrano in carcere non è dettata solo dalla gravità del reato commesso ma anche e soprattutto dalla marginalità sociale del ragazzo, dal suo essere o meno dotato di legami famigliari o altro sostegno sul territorio. Non a caso ben il 44% della popolazione detenuta nelle carceri per minori è composto da giovani stranieri. Chi non ha una dimora stabile, chi vive in un campo rom, chi non ha una famiglia che può assicurare un legame duraturo con gli assistenti sociali, fatica a essere destinatario delle tante misure alternative alla detenzione o al processo che il codice di procedura penale minorile permette.

Dobbiamo dunque guardare oltre. Dobbiamo inventarci modalità ulteriori di presa in carico sul territorio che siano inclusive e non lascino da parte ragazzi ancora in via di formazione cui la società non può permettersi di rinunciare etichettandoli come criminali. E poi dobbiamo guardare oltre anche una volta fatto ingresso in carcere. Non è possibile che le carceri per minori siano gestite con le stesse regole delle carceri per adulti. Gli adolescenti hanno esigenze differenti rispetto agli adulti e necessitano di competenze differenti. Era il 1975 quando il legislatore scrisse che l’ordinamento penitenziario degli adulti sarebbe stato applicato ai minori per il solo tempo strettamente necessario a redigerne uno apposito. Ciò non venne mai fatto. Adesso il ministro Orlando ha annunciato che prima di Natale avremo, tra le altre cose, nuove regole carcerarie per gli Istituti di pena minorili. Per chi si occupa di carcere è un momento storico. Aspettiamo di leggere i contenuti della riforma e speriamo davvero che sia di portata memorabile.

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