I tre premi più importanti (Leone d’Oro per il miglior film; Leone d’argento per la miglior regia; Leone d’argento – Gran premio della giuria) finiranno assegnati mai come quest’anno con un traballante gioco d’incastri. Provando ad escludere i titoloni Usa, proviamo a puntare su Mektoub My Love: Capitolo Uno di Abdellatif Kechiche – un racconto vitale e carnale di un coming-of-age nel Sud della Francia del ’94 per un gruppo di giovani franco-tunisini -, e su Angels wear white – la storia di due ragazze cinesi, una vittima di uno stupro e l’altra testimone di ciò che è accaduto alla prima, parecchio gravida di smaccati simbolismi e inquadrature didascaliche del dramma. Quest’opera potrebbe colpire il cuore “di genere” del folto gruppo di giurate donne presenti quest’anno assieme alla Bening.
Come del resto non può lasciare indifferenti la messa in scena del dolore paterno del bel Foxtrot dell’israeliano Maoz, oltretutto già vincitore di un Leone d’Oro per Lebanon nel 2008, o la regia pulita e meticolosa di Kore-eda per il metaforico The Third murder che sembra uscito da un levigato episodio di Law&Order.
Tra i migliori attori citiamo tre nomi: se l’adolescente protagonista di Lean on Pete, quel Charlie Plummer in scena dal primo all’ultimo minuto, venisse dirottato sul premio per il Miglior attore emergente, si farebbe spazio per il pastore luterano tormentato di Ethan Hawke in First Reformed; per il protagonista di Foxtrot, Lior Ashkenazi; o addirittura per il Donald Sutherland di The Leisure Seeker di Virzì.