di Pia Starace

Da lunedì 28 agosto è in atto lo sciopero dei docenti universitari dagli esami di profitto, per ottenere, dopo tre anni di protesta inascoltata:

1. lo sblocco di classi e scatti stipendiali, bloccati nel quinquennio 2011-2015, a partire dal 1 gennaio 2015 e non dal 1 gennaio 2016, com’è attualmente;

2. il riconoscimento a fini giuridici, con conseguenti effetti economici, del quadriennio 2011-2014, a partire dal 1 gennaio 2015. Un disagio necessario per dare massima evidenza alle anomalie irriguardose subite in questo lungo arco temporale e per reclamare a gran voce la dignità del ruolo. All’epoca del governo Monti si chiese ai docenti universitari un contributo al sacrificio nazionale per il risanamento dei fondi pubblici, prospettando loro, come orizzonte del sacrificio, l’anno 2015.

Senonché il 2015, anno di sblocco per altre categorie del pubblico impiego, in base a motivazioni oscure ed evidentemente inique, non lo è stato per i docenti universitari. Siamo al 2017 inoltrato e sulla busta paga, solo a partire da gennaio 2016, risulta sbloccato il conteggio del periodo di maturazione dello scatto (peraltro diventato da biennale, triennale), ma a ciò non è corrisposto il relativo incremento economico. Insomma, una manovra che ha tradito le aspettative e i sacrifici, perché non soltanto non riprende a calcolare gli scatti dal 2015, come promesso, ma neppure riconosce il rimborso degli arretrati dal 2011, manifestando una scarsissima considerazione del ruolo sociale dei docenti universitari, la cui attività è in sostanza considerata fonte di spesa improduttiva.

E non dimentichiamo che un cospicuo ridimensionamento salariale, ossia un contenimento della spesa, è stato già operato dalla L. 240/2010, che ha cancellato la ricostruzione di carriera nei passaggi di fascia. Numerose, del resto, le storture correlate all’attuale situazione: la disparità di trattamento tra docenti universitari rispetto ad altre categorie di dipendenti pubblici (magistrati e militari), con le aggravanti del blocco delle carriere, della decurtazione degli stipendi medi, del tardivo ingresso in ruolo e della conseguente impossibilità di raggiungere per tutta la carriera le classi stipendiali più alte, della stentatezza del turn over, del blocco della mobilità interuniversitaria, dell’iniquità del mancato riconoscimento a fini giuridici di cinque anni di attività lavorativa come danno economico ingentissimo di natura individuale.

Pensiamo inoltre alle politiche avanzate nel contempo dal governo per dare un segnale di interesse verso un rilancio dell’Università pubblica, incardinate sulla incentivazione al rientro dei cervelli in fuga con privilegi economici, e alla chiamata diretta delle eccellenze senza passare per l’abilitazione. Sarebbero trovate apprezzabilissime e altamente qualificanti se non fossero invece, di fatto, argomenti cavalcati per distrarre l’attenzione dalle complesse problematiche di gestione ordinaria del sistema universitario. La loro efficacia comunicativa risulta tanto più forte quanto più si staglia su un quadro di mortificazione dell’esistente, che passa attraverso il trattamento dei docenti come dipendenti pubblici improduttivi, di cui può addirittura essere menomata sine die la retribuzione.

Il sistema universitario invece andrebbe rimesso complessivamente in sesto, proprio cominciando dal riconoscimento della piena dignità a quella pletora di docenti e studiosi che nella loro “normalità”, con la loro dedizione quotidiana, animano l’istituzione con spirito di servizio, avendo maturato con essa un legame profondo nonostante le continue difficoltà e frustrazioni. Quegli scatti per cui in questi giorni si sciopera, costituiscono parte integrante dello stipendio, sono una componente irrinunciabile della dignità del lavoro universitario, e pertanto rappresentano un tassello importante della necessaria ristrutturazione di un sistema socialmente indispensabile, da valorizzare innanzi tutto non trascurando le sue enormi potenzialità endogene.

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