Accuse “ingenerose” nei confronti della procura ma anche un “zoppia nei discorsi dei pm“, che però hanno “la reazione dei cani di Pavlov“, quando si contesta la loro ricostruzione. È un durissimo scambio d’accuse quello che va in scena davanti alla corte d’assise di Caltanissetta, che sta celebrando il quarto processo per la strage di via d’Amelio, in cui il 19 luglio del 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e 5 uomini della scorta. Alla sbarra imputati per strage ci sono Salvo Madonia e Vittorio Tutino mentre i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci sono accusati di calunnia.

È tra i banchi della pubblica accusa e quelli delle parti civili che però si consuma un velenosissimo botta e risposta. Gli attori sono essenzialmente due: da una parte il procuratore capo di Caltanissetta, Amedeo Bertone, dall’altra l’avvocato Fabio Repici, il legale di Salvatore Borsellino che già nelle scorse udienze aveva chiesto l’assoluzione di Scarantino, criticando aspramente le indagini condotte dagli inquirenti (leggi l’articolo premium). Anche se si tratta del processo numero quattro sull’eccidio di via d’Amelio, infatti, sono diversi i pezzi mancanti e gli interrogativi rimasti inevasi intorno alla strage Borsellino. Ed è per questo motivo che il procuratore Bertone, all’inizio della sua replica a Repici, ammette l’esistenza di diversi “buchi neri nei fatti legati alla strage di via D’Amelio“. 

Un esempio? “La vicenda dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, le indicazioni fornite in aula dal colonnello Giovanni Arcangioli e il contrasto con altre dichiarazioni pongono la necessità di riaffrontare questo tema. Ci sono le prospettive per una ulteriore attività che dovrà essere svolta e verificata”, dice Bertone, annunciando praticamente l’esistenza di una nuova indagine sul diario di Borsellino, sparito subito dopo la strage. Poi, però, il capo degli inquirenti nisseni prova a difendere la bontà della propria inchiesta. “In questo processo si è parlato di zoppia del discorso del pm in relazione all’esame delle fonti di prova, di orticaria nei confronti dell’argomento trattativa e di pensiero malato del pubblico ministero, di amnesie per le vicende del castello Utveggio e in un’aula di giustizia si è parlato di vergogna rivolgendosi al pm; addirittura qualcuno ha detto che tutto questo suscita cattivi pensieri. Sono esternazioni che respingiamo al mittente. Tutto questo sembra davvero ingeneroso nei confronti di quest’ufficio che si è dato carico, senza fanfare, di rivedere tutto il materiale probatorio offerto dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina“, ha detto Bertone.

Il processo Borsellino Quater, infatti, è quello scaturito dalle dichiarazioni di Scatuzza, che ha riscritto completamente la fase operativa della strage, fino a quel momento ricostruita solamente sulla base delle false dichiarazioni di Scarantino. Solo che il balordo della Guadagna è stato costretto a suon di botte e minacce a recitare il ruolo del pentito di mafia, ed è per questo motivo che Repici ne aveva chiesto la sua assoluzione, mentre per i pm Scarantino si sarebbe inventato “di volta in volta bugie e falsità, accogliendo i suggerimenti degli investigatori e fornendo le risposte che si aspettavano per un tornaconto personale consistente nell’uscire dal carcere e avere dei benefici”.

Ricostruzione ribadita oggi da Bertone, che ha replicato direttamente a Repici. “Non riteniamo sia una vergogna chiedere la condanna per calunnia di Vincenzo Scarantino, avvocato Repici. E sostenere in un’aula di giustizia che si sia trattato di una vergogna è un eccesso. È stato detto che è un falso sostenere che Scarantino ha parlato solo quando è stato messo con le spalle al muro. Dopo l’ultima ritrattazione Scarantino ha impiegato sei mesi prima di parlare. Riteniamo che ci sia stato un pressing e un comportamento scorretto da parte di alcuni operatori di polizia, ma anche che ci sia stato un interesse di Candura e Scarantino a iniziare una collaborazione. Altra insinuazione gratuita è quella di avere lasciato pendente l’indagine sui poliziotti per il depistaggio e le pressioni a Scarantino, in modo da consentire loro di potere avvalersi della facoltà di non rispondere. Inutile ricordare che sono stati sentiti in aula dopo la chiusura dell’indagine”, ha detto il pm. Il riferimento è all’altro filone d’indagine aperto su via d’Amelio: quello sui poliziotti indagati per il depistaggio. Da una parte ci sono Mario Bo,Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera, indagati dal 2009 e archiviati nel gennaio del 2016. Dall’altra ci sono Domenico Militello e Giacomo Piero Guttadauro, detto Giampiero, più altri quattro colleghi, iscritti nel registro degli indagati a partire dal febbraio dell’anno scorso. 

“La Procura dice che i poliziotti sono stati scorretti, termine che vuol dire tutto e niente. Come dire che sono stati cattivelli. Il punto è un altro. Sono stati commessi reati o no? Analizzando la richiesta di archiviazione sul depistaggio prendo atto che per la procura non ci sono estremi di reato. Ma voi una risposta dovete darla. Quella scorrettezza è in realtà un’illegalità ed è di una coerenza logica insuperabile”, ha quindi detto Replici, replicando all’intervento di Bertone. Il nodo, per l’avvocato di parte civile è sempre lo stesso: un copione istituzionale dietro al depistaggio delle indagini di via d’Amelio che non ha niente a che vedere con la mafia. “Io – ha detto Repici –  sono convinto che le prove fornite in questo dibattimento dimostrino che ci sia stato, nella strage di via D’Amelio, un intervento esterno a Cosa nostra e agli odierni imputati. Sono persone che devono essere individuate dalla procura e portate a processo dalla Procura. Ancora però non è arrivato a dircelo un collaboratore di giustizia dagli apparati deviati dello Stato, che, come ci insegna la storia italiana, sono più pericolosi delle organizzazioni criminali”.

Quindi la replica nei confronti della pubblica accusa. “Ogni contestazione, all’assunto dei pubblici ministeri causava in loro la reazione dei cani di Pavlov perché tutto ciò che contrastava con il loro dire era qualcosa di falso, di dolosamente falso“.  Parole che hanno praticamente chiuso il processo: domattina, dunque, la corte entrerà in camera di consiglio per emettere la sentenza. La procura ha chiesto l’ergastolo con l’aggravante di terrorismo per il boss Madonia ed ergastolo per il mafioso Tutino: il primo mandante e il secondo esecutore della strage. Otto anni e sei mesi di reclusione per il falso pentito Scarantino, quattordici per  Andriotta e  Pulci che hanno riscontrato le sue dichiarazioni.

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