di Veronica Caciagli

1. Su cosa si vota il 17 aprile?

Il referendum avrà solo un quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?»

Il risultato, se vince il SÌ, sarà di non rinnovare le concessioni in corso per l’estrazione di petrolio e gas entro le 12 miglia. I seggi saranno aperti dalle 7 alle 23 di domenica 17 aprile.

2. Significa che qualcuno il 18 aprile perderà il lavoro? E successivamente?

No, significa che le concessioni non saranno rinnovate a scadenza. Il referendum non riguarda i lavori attuali, ma quelli futuri. Alcune concessioni scadranno tra 5 anni, altre tra 15 anni. E non possiamo certo pensare che tra 15 anni investiremo ancora in lavori fossili! C’è anche da tenere in considerazione che per produrre 1MWh di energia da fonte fossile, come ad esempio il gas, serve in media 1 lavoratore, mentre produrre la stessa quantità di energia da fonte fotovoltaica, sono necessari 7/11 lavoratori (considerando tutto il ciclo di produzione; fonte: International Labour Organisation). Perciò si dice che quello delle rinnovabili è un settore labour-intensive: crea lavoro!

3. L’industria dell’energia andrà in crisi dopo questo referendum?

L’industria dell’energia è già in crisi, indipendentemente dal referendum. L’Eni ha registrato una perdita di -8,82 miliardi di Euro nel 2015. La British Petrolium, con un bilancio negativo di 6,5 miliardi di dollari, sta licenziando 7.000 persone. Negli Stati Uniti nel solo 2015 ben 44 aziende di estrazione petrolifera sono andate in bancarotta. Il mondo dell’energia fossile è in crisi nera, sia come conseguenza dei bassi prezzi del petrolio che per una prospettiva di lungo periodo negativa. Infatti, i governi hanno già decretato quando arriverà la fine dell’era delle fossili: nell’Accordo di Parigi gli Stati si sono impegnati ad arrivare ad emissioni zero entro la seconda metà di questo secolo.

4. Sì, ok, ma fino al 2050 almeno un po’ di fossili ci serviranno?

Stiamo parlando di due gocce di petrolio e gas, con potenziali rischi per i nostri mari. Come ben spiegato nell’appello degli scienziati di “Energia per l’Italia”, le “total proved reserves” di gas naturale in Italia ammontano a circa 50 miliardi di metri cubi, non sufficienti a soddisfare il consumo annuale stimato a 56,8 miliardi di metri cubi. Quindi questi giacimenti nazionali di idrocarburi rappresentano una risorsa molto limitata, il cui sfruttamento potrebbe produrre, anche escludendo possibili incidenti, danni ambientali ed economici ingenti, quali inquinamento, rischi per l’ecosistema marino e per il settore turismo e pesca.

5. L’Italia quanto ci guadagna da questi giacimenti?

Ci guadagna tramite le royalties: sono il canone che le compagnie petrolifere devono corrispondere allo Stato annualmente. In Italia l’aliquota è del 7% per le estrazioni di petrolio in mare e del 10% per l’estrazione di gas che vengono però pagati solo se la produzione annuale supera le 50.000 tonnellate per il petrolio e gli 80.000 metri cubi per il gas. Delle 26 concessioni produttive, solo 4 a petrolio e 5 a gas hanno pagato le royalties.

Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non versare il pagamento. Per il 2015 l’ammontare, secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico è stato di circa 350 milioni: ovvero più o meno il costo del mancato accorpamento del referendum con le elezioni amministrative.

Di questo, una cifra di 105-150 milioni è destinata per il 50% al Ministero dell’ambiente “per assicurare il pieno svolgimento delle azioni di monitoraggio e contrasto dell’inquinamento marino” e per il restante 50% al Ministero dello sviluppo economico per assicurare il pieno svolgimento delle attività di vigilanza e controllo della sicurezza anche ambientale degli impianti di ricerca e coltivazione in mare”.  Insomma, una parte è reimpiegata per controllare, sorvegliare e monitorare le trivelle stesse – cosa assolutamente necessaria, ma che va a diminuire ancora l’importo che entra nelle casse di Stato, Regioni e Comuni.

6. …magari se rinnoviamo le concessioni, in futuro ci guadagneremo di più?

Sicuramente no. Molte di queste concessioni riguardano giacimenti già sfruttati. Con prezzi del petrolio bassi e con le soglie di esenzione dalle royalties, è probabile che le aziende prolungherebbero il tempo di estrazione. Anche per rimandare i costi di smantellamento degli impianti. Insomma, avremmo tante strutture che non producono e che producono poco, che rimarrebbero nei nostri mari a tempo indefinito.

7. Perché si è scelto di indire un referendum solo sul rinnovo delle concessioni entro le 12 miglia?

In realtà la storia è un po’ più lunga: I quesiti referendari depositati a settembre erano 6. Su due quesiti risulta invece un conflitto di attribuzione. Ne rimangono quindi 4, ma di questi 3 sono stati riassorbiti: ovvero il Governo ha cambiato la normativa vigente all’interno della Legge di Stabilità, come richiesto dai 3 quesiti. Perciò ne è rimasto solo uno.

8. Il referendum riguarda anche scelte energetiche e gli investimenti nelle rinnovabili?

Sì. E’ ora di dare un segnale al governo: l’energia è un tema che interessa ai cittadini. Vogliamo una nuova Strategia Energetica Nazionale, per le rinnovabili.

Ma allora, per chi è strategico il rinnovo delle concessioni?

Questo non lo so. Sicuramente non per il clima, non per l’ambiente, non per i cittadini. Per un futuro energetico rinnovabile, pulito e a emissioni zero, votiamo sì!

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