Il voto al referendum del 17 aprile sul tema delle trivellazioni petrolifere in mare ha ormai assunto un significato che va ben oltre il contenuto dell’unico quesito rimasto sulla durata delle concessioni per trivellare i nostri mari alla ricerca di idrocarburi. È un voto che chiede di scegliere tra il vecchio ed il nuovo, tra la pace con l’ambiente e la rapina delle risorse naturali, tra la ricerca del profitto privato e il soddisfacimento del benessere collettivo, tra il feticcio del Pil e la ricerca di un vero sviluppo.

È per questo che fa paura a questo governo e a questa classe dirigente ruspante. È, infatti, un referendum nato dal basso, in modo anomalo e trasversale, fuori da schemi di partito e di riferimenti destra-sinistra, senza alcun vantaggio economico per i promotori, senza addirittura alcun contenuto politichese, per molti sentito soprattutto “a pelle”, senza troppi approfondimenti ma con una valenza chiarissima: è giusto, come ha deciso sulle nostre teste il decreto “Sblocca Italia”, mettere in pericolo i nostri mari, già tanto depauperati, per consentire a qualche compagnia di cercare pochi barili di petrolio che, specialmente oggi, servirebbero a ben poco per la nostra economia?

Probabilmente chi ha voluto lo “Sblocca Italia” non si aspettava questa reazione, essendo abituato ad un paese dove ormai il consenso si forma “in batteria” e troppi cittadini hanno rinunciato a ragionare con la propria testa. E così è partito il boicottaggio del referendum, con una data fissata a sé, precedente e ben distinta dalle altre scadenze istituzionali, senza tempo per parlarne. Una strategia già risultata altre volte vincente perché punta non sulla forza di una posizione ma sul non raggiungimento del quorum. Questa volta, però forse qualcosa è cambiato. Nella lunga lotta per gli ecoreati, il Senato nell’ultima versione approvata prima di quella definitiva, aveva inserito nel codice penale una ipotesi di delitto direttamente collegata alle trivellazioni petrolifere in fondali marini. Esattamente, l’art. 452-quaterdecies, intitolato a “Ispezioni di fondali marini” secondo cui “chiunque, per le attività di ricerca e di ispezione dei fondali marini finalizzate alla coltivazione di idrocarburi, utilizza la tecnica dell’air gun o altre tecniche esplosive è punito con la reclusione da uno a tre anni”.

Ed è appena il caso di ricordare che, secondo l’Ispra (il nostro massimo organo di controllo scientifico governativo in campo ambientale), “gli airgun non sono altro che array di tubi d’acciaio che vengono riempiti con aria compressa e poi svuotati di colpo producendo così delle grosse bolle d’aria subacquee che, quando implodono, producono suoni di fortissima intensità e bassissima frequenza” per cui “gli airgun e l’esplorazione geosismica sono considerati la dinamite del nuovo millennio. Ogni 9-12 secondi un’esplosione è trasmessa in mare, ininterrottamente, per intervalli di tempo anche piuttosto lunghi (mesi)”; aggiungendo che “diversi studi hanno messo in evidenza l’impatto comportamentale e fisiologico che l’airgun può esercitare sui mammiferi marini” e sulla fauna acquatica; “a maggior ragione in un mare come il Mediterraneo, noto per la sua biodiversità, ma anche per la sua estrema vulnerabilità all’inquinamento, incluso quello acustico”. Tanto più che ci sono soluzioni alternative: ad esempio, quella del “vibratore marino che, seppure non costituisca una tecnologia affermata e diffusa (soprattutto a causa dei suoi elevati costi), evidenzia alcuni vantaggi rispetto all’airgun che potrebbero trovare uno sviluppo futuro a garanzia di una maggiore tutela dell’ambiente marino”.

Ebbene, ciononostante, il governo bacchettava duramente il Senato, e la Camera, che avrebbe dovuto dare l’approvazione definitiva agli ecoreati, faceva una sola modifica: eliminava, cioè, proprio il divieto di airgun a fini di coltivazioni petrolifere (la ricerca scientifica non era mai stata messa in discussione). Con buona pace di alcune associazioni ambientaliste che pure presidiavano il Parlamento reclamando l’approvazione immediata del Ddl sugli ecoreati “senza modificare neppure una virgola”; ma poi, ben presto, si acquietavano. E così, il testo, mutilato del divieto di airgun, tornava al Senato che, dopo pochi giorni, grazie al mutamento di rotta dei senatori di maggioranza, si rimangiava il voto di pochi giorni prima, dando via libera all’airgun ed alle trivellazioni.

Ma oggi – ed è questa la novità- nell’imminenza del referendum c’è un nuovo capovolgimento di fronte ed alcuni parlamentari della maggioranza dicono apertamente basta a questa pervicacia del governo: “Risulterebbe più significativo ed utile rivedere una strategia energetica nazionale di fatto non discussa in Parlamento, anche alla luce delle condizioni che oggi investono il mercato degli idrocarburi. Anche perché gli esperti, da più fronti, sottolineano la poca rilevanza strategica delle risorse nazionali di gas e petrolio… Crediamo che i tempi siano maturi perché il governo scelga lo stop”. Del resto, prima di loro lo aveva già detto papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: “I mari stanno trasformandosi in ‘cimiteri subacquei’ a causa delle attività umane… l’era del petrolio e dei combustibili fossili deve essere sostituita ‘senza indugio’ dalle energie rinnovabili”.

Resta da chiedersi ancora, a questo punto, perché il governo continua a difendere una posizione francamente assurda per chiunque sia dotato di media intelligenza. La risposta è la stessa: quello che fa paura è la possibilità che i cittadini si riapproprino del loro diritto di scegliere il futuro del loro paese: questo sviluppo distorto fatto di diseguaglianze oppure un progresso vero basato non sulla rapina ma sull’uso rispettoso delle risorse della natura? La data di inizio potrebbe essere il 17 aprile 2016.

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