Un Dio monoteista armato di kalashnikov, la veste candida macchiata di sangue, corre a gambe levate, la mano destra serrata nel pugno, lanciandoci uno sguardo allucinato e gonfio di rabbia. Lo sfondo è nero, come lo è in Star Wars la forza oscura del Male. E’ il terribile e millenaristico disegno di Riss che campeggia sulla copertina del numero speciale di Charlie Hebdo di mercoledì 6 gennaio, affiancato da un titolo che è un grido atroce, urlato a tutti noi perché non dimenticassimo ciò che è stato e che continua ad essere: “L’assassin court toujours”, l’assassino corre sempre. Esce in edicola giusto un anno dopo il massacro del 7 gennaio 2015, quando i fratelli Said e Chérif Kouachi irruppero nella redazione del settimanale satirico e la decimarono: 12 morti, tra i quali il direttore Charb e i disegnatori Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré. Fu, quel giorno, l’inizio di un tragico e maledetto 2015, contrassegnato da mattanze, stragi, attentati in un crescendo drammatico e convulso contro l’Occidente infedele e miscredente, debosciato e corrotto: la stagione della paura, l’era della minaccia incombente, il tempo della sicurezza che giustifica ogni emergenza, sino al sacrificio delle nostre libertà, così faticosamente conquistate.

Da Parigi a Parigi, dal mercoledì 7 gennaio al venerdì 13 novembre, così si potrebbe definire questo itinerario circolare del terrorismo islamico che ha sconvolto l’apatia della nostra società, risvegliando i fantasmi assopiti dell’autoritarismo e del “pugno di ferro”. In mezzo, abbiamo gli spari del 14 febbraio contro il disegnatore svedese Lars Vilks, scampato ad un attacco mentre teneva una conferenza a Copenhagen. Colpevole d’aver realizzato una serie di disegni in cui Maometto era rappresentato con le fattezze di un cane, nel 2007. Costretto a vivere in una località segreta. Costretto a trasformare la casa in un rifugio blindato. Costretto a dormire con un’ascia sotto il cuscino. Costretto a convivere con le minacce da troppi anni: “Non ho mai avuto interesse a offendere il Profeta. L’ho fatto per ribadire che l’arte deve essere libera”.

La libertà d’espressione mobilitò due milioni di parigini che scesero in piazza domenica 11 gennaio uniti in nome di “Je suis Charlie”. Nessuno, quella domenica, cercò di strumentalizzare politicamente la “marcia repubblicana” in nome della tolleranza. In nome della democrazia e della libertà. Guai, ci dicemmo allora e continuiamo a ripeterlo oggi, se ci arrendessimo. Se diventassimo ostaggi della reazione. Della demagogia. Se parlare di libertà di parola diventasse troppo pericoloso. Se prevalesse l’autocensura. La paura cioè di dire. Di pensare. Di cambiare la nostra idea di democrazia. Non subiamo il ricatto delle sventagliate di mitra, delle decapitazioni. Stiamo in guardia, comunque. Perché il fanatismo è veleno insidioso. Il linguaggio del fanatismo è anticamera della tirannia. Gli estremismi che cercano di riscrivere la Storia coi dogmi del terrore. Sostenuto con armi moderne.

Poi, mentre in Francia scoppiava il caso di Michel Houellebecq, autore dell’inquietante e – secondo l’autore – profetico romanzo “Sottomissione” in cui immagina il suo Paese in un futuro indeterminato ma non molto lontano (2020?) guidato da un governo islamico, con un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa ad occuparsi di mariti e figli poiché l’Islam ha prevalso sulla civiltà dell’Illuminismo, ecco che puntuale arrivano eccidi che hanno per bersaglio i simboli della cultura. Come il Museo del Bardo di Tunisi. E’ un altro mercoledì, quello del 18 marzo. Muoiono 24 persone, tra cui 4 italiani. Il presidente tunisino Beji Caid Essbsi annuncia che domenica 29 marzo si svolgerà una “marcia internazionale”. Parola d’ordine: “Le monde est Bardo”. Salvini, in Italia, chiede la sospensione di Schengen. Un marocchino viene arrestato in Italia, su indicazioni della procura di Tunisi. Resterà sette mesi in galera, prima di essere scarcerato a dicembre, dopo che la magistratura italiana ha verificato la sua estraneità. Era stato espulso il 17 febbario, ma dopo l’attentato al Bardo era rientrato illegalmente.

La sua vicenda è sintomatica del clima che giorno dopo giorno si instaura nel Vecchio Continente, flagellato dalla crisi economica, dal default greco, dai flussi migratori in cui si infilano scaltramente i “foreign fighters” del Califfato. Si comincia a demonizzare “il nemico alle nostre porte”. I musulmani “quinta colonna” del terrorismo. La Bosnia, ricettacolo dell’integralismo e del salafismo. I ceceni. Putin scende in campo, affianca Damasco, il Medio Oriente diventa guerra asimmetrica tra Grandi Potenze e Potenze Regionali come la Turchia. L’instabilità mediorientale rafforza le destre xenofobe e alimenta il razzismo. In una carta geopolitica dell’Europa, l’Italia è segnata tra i Paesi più razzisti, forse il più razzista di tutti. Intanto, abbiamo uno sventato attentato su un convoglio del Tgv Thalis da Amsterdam a Parigi. Il terrorista viene neutralizzato dai passeggeri. E’ però la dimostrazione di un nuovo e destabilizzante pericolo: l’esistenza cioè di “lupi solitari” della Jihad che si fanno branco. Come in Belgio. Come a Molenbeek, dove le piste del terrorismo siriano ed iracheno s’incrociano e si dipanano in Francia, in Germania, in Olanda. Lo si è visto subito dopo i massacri di Charlie Hebdo e dell’ipermercato ebraico di Parigi. In Italia, si presume, siano circa un migliaio i jihadisti potenziali, secondo le valutazioni del Viminale. Per rassicurare l’opinione pubblica, si dice che da almeno cinque anni sono controllati e monitorati dall’antiterrorismo e dall’intelligence.

Gli assassini in nome di Allah massacrano intere comunità in Africa, uccidono gli studenti in un’università del Kenya, colpiscono in India, in Indonesia, in Birmania. Vogliono dimostrare il loro potere globale. Il 10 ottobre, poco prima di una grande manifestazione pacifista ad Ankara organizzata dal partito curdo Hdp (entrato in Parlamento per la prima volta a giugno), due kamikaze si fanno esplodere: 97 morti, duecento feriti. E’ la vigilia delle elezioni presidenziali. Attacco terroristico, si premura subito di denunciare il governo. Di certo, l’attentato è frutto dell’aggrovigliata situazione siriana ed irachena. Il Califfato incassa i crediti. Il 31 ottobre un aereo russo zeppo di turisti reduci dalle vacanze nel Mar Rosso, esplode in aria: 224 morti. Putin nega, all’inizio, che si tratti di un attentato. Le prove dicono il contrario. Il presidente russo è costretto ad ammettere che una bomba ha distrutto il velivolo. L’Isis egiziana rivendica. Più tardi, svela pure come ha fatto: celando l’esplosivo dentro una lattina.

Le stragi di Parigi del venerdì 13 novembre sono squassanti, politicamente, socialmente, culturalmente. Si passa dall’essere stati “Je suis Charlie” e si diventa “Je suis Paris”. Undici mesi dopo l’attentato alla libertà d’espressione c’è l’attacco ai luoghi dove la gente ascolta musica rock, dove cena, dove va a vedere una partita di calcio. Si fa strada, nella coscienza collettiva, che ormai si è in guerra. Contro la “barbarie”. Contro l’abiezione di “esseri che sono motivati dall’istinto della morte”. Contro la soldatesca di Daech (al Califfato non piace essere definito così perché nella storia dell’Islam, Daech evoca la sconfitta) e le sue metastasi nel continente africano ed asiatico. La mobilitazione, stavolta, è felpata. Si vieta ogni manifestazione, ma la gente va a rendere omaggio in piazza della Repubblica, ed è uno sfilare costante, ininterrotto, popolare, non populista. Di lì a poco Parigi ospita la grande conferenza sul clima e i suoi cambiamenti, intanto però i primi cambiamenti sono quelli che regolano lo scorrere della quotidianità. Aumentano controlli, sorveglianza del territorio e delle comunicazioni. Con l’alibi dello “stato d’urgenza”, iniziano le prove di uno Stato più intrusivo, dove certi diritti perdono i loro diritti.

Lo Stato di diritto non può essere uno stato di debolezza, opinano i giuristi, cosa valgono libertà, eguaglianza e fratellanza senza sicurezza, si domanda il filosofo Michel Onfray che tanto piace a Marine Le Pen. L’identitarismo islamico diventa terreno di scontri politici: in Francia incombono le elezioni regionali, il Fronte Nazionale è in testa ai sondaggi, terrorismo e migranti sono cavalli di battaglia, per tamponare l’avanzata dell’estrema destra i partiti che le si oppongono adottano quasi gli stessi slogan. Di nuovo, torniamo all’origine. Gli attentati in nome di Allah hanno scatenato una guerra diffusa, a più livelli: non solo militari, non solo polizieschi, ma soprattutto verbali. La parola al tempo della Jihad è letale. La parola è arma potentissima, come dimostrano le farneticanti rivendicazioni in nome di libri sacri che possono essere abilmente manipolati. La parola uccide, i segni lasciano segni. L’offesa delle parole, dal fronte del fanatismo religioso, viene lavato con il sangue dell’altro.

Nel numero speciale di Charlie Hebdo, oltre ai disegni dei vignettisti uccisi, possiamo leggere interventi dello stesso ministro della Cultura, Fleur Pellerin; delle attrici Isabelle Adjani, Juliette Binoche, Charlotte Gainsbourg. Di intellettuali come Elisabeth Badinter, la bangladese Taslima Nasreen, l’americano Russel Banks. Il musicista Ibrahim Maalouf. L’editoriale di Riss, che rimase gravemente ferito il 7 gennaio, è corrosivo nella strenua difesa della laicità. Denuncia i “fanatici abbrutiti dal Corano”, e “i culi-benedetti venuti da altre religioni” che avevano auspicato la morte del giornale che aveva “osato ridere del religioso”. Nel finale, l’invettiva: “E‘ l’eternità che ci è caduta addosso quel mercoledì 7 gennaio. Non sono tuttavia due piccoli coglioni incappucciati che rovineranno il lavoro delle nostre vite. Non solo loro che vedranno crepare Charlie. E‘ Charlie che li vedrà crepare”.

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