Lo hanno giurato in tanti. Presidenti della Repubblica  e presidenti del Consiglio. Ministri. Giudici costituzionali. Sindaci, militari, dipendenti pubblici. Quanto agli immigrati sul punto di ottenere la cittadinanza italiana, guai a chi non sa scandire la solenne frase in un italiano chiaro e convincente: “Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi.

Ma adesso che è passato al Senato il nuovo testo nel pacchetto di Riforme Boschi, chiediamocelo: chi ce la farà a restare serio e solenne? Come si potrà giurare, e per di più onestamente, di essere leali verso una Costituzione che gli stessi senatori che l’hanno votata definiscono francamente una «schifezza», uno «scempio», una «fetenzìa»? Ammettiamolo. Non c’è nulla di più lontano dall’alto spirito dei padri costituenti di quell’aria depressa che si respira tra l’aula e la buvette di palazzo Madama. Festeggiamenti sinceri, se ne vedono pochi. Vergogna, si direbbe parecchia. Commenti irriferibili, se ne ascoltano anche troppi. E buona fortuna a quanti, tra mezzo secolo, leggeranno i resoconti ufficiali dei giorni in cui si è votata la grande riforma di Maria Elena Boschi: troveranno «una vera porcata» (Johnny Crosio, Lega), «una vera e propria patacca» (Roberto Calderoli, memorabile autore del “Porcellum”), «un ammasso sgangherato di ferraglia» (Giovanni Endrizzi, M5S), e addirittura una «macelleria istituzionale», anzi l’«ennesima volgare truffa ai danni del popolo sovrano» (Paolo Arrigoni, Lega Nord).

Sicuramente, tra il 1946 e il 1947, né Alcide De Gasperi, né Umberto Terracini, e tantomeno Luigi Einaudi, Palmiro Togliatti, e Pietro Nenni, e Giuseppe Saragat, si sono mai pronunciati sul proprio lavoro legislativo come il neo-verdiniano senatore Vincenzo D’Anna ha onestamente definito il suo: «una schifezza». Toccherà scordarsi l’orgoglio per «una delle cose più straordinarie del mondo, la costituzione italiana», come la vantava Roberto Benigni in un celebre monologo.

Oggi abbiamo «un papocchio » (De Petris). «Un caos istituzionale», «uno sfregio» (Endrizzi). «Una riforma confusa, disorganica e pericolosa» (De Siano, Fi). «Un mostro giuridico» (Divina, Lega). E se queste sono le definizioni agli atti, figurarsi quelle ufficiose che i senatori esausti, da destra a sinistra, borbottano lungo i corridoi prima di sparire nel nulla: «merdata» e «vergogna», «schifezza» e «porcheria» sono, diciamo, tra le poche riferibili. Durerà poco, ha provato a consolare i colleghi, in aula, il senatore forzista Caliendo: nel giro di quattro o cinque anni tutti i nodi verranno al pettine, questa riforma rivelerà le sue pecche e al Parlamento toccherà riformare tutto daccapo un’altra volta.

Ma intanto? Tocca tenersi la «porcheria», la «chiavica». Uno «scempio» che non è solo giuridico: perchè la riforma, oltre che macchinosa, ingestibile, incomprensibile, è pure brutta; cioè scritta malissimo. In un italiano orribile, con un’ondata di commi, articoli soppressivi, emendamenti, sub-emendamenti, tecnicismi che stravolgono l’eleganza della Carta entrata in vigore dal 1° gennaio 1948. O, almeno, così protesta da due anni Walter Tocci, minoranza Pd, paragonando senza pietà «la bella lingua italiana, le parole semplici e intense dei padri costituenti», con l’odierno «lessico nevrotico e tecnicistico, scandito di rinvii a commi, come in un regolamento di condominio».  Dalla sua prima protesta il testo è stato ancora peggiorato. Una «schifezza», appunto.

«Abbiamo messo in moto un meccanismo di desertificazione della democrazia e di ulteriore allontanamento del cittadino dalle istituzioni», ha messo agli atti la capogruppo dei fittiani, Cinzia Bonfrisco, mentre il forzista D’Alì le faceva eco che sì, «questa riforma sancisce il massacro dello Stato», e la De Petris arringava i colleghi, «Rivendichiamo fino in fondo di avere utilizzato tutte le nostre energie e tutti gli strumenti per impedire lo stravolgimento della Carta costituzionale». Indignatissimi, manco a dirlo, i Cinque Stelle: questa riforma trasformerà «il sistema in regime» (Luigi Gaetti).

E adesso? Adesso, anche nella maggioranza Pd ci sono parecchi senatori dubbiosi e tristi, perché poco convinti della qualità dello «sgorbio» (così l’ha definito Lorenza Carlassarre, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova) che si sono ritrovati a votare. «Meno male che sono all’ultimo giro», confessa un senatore non renziano all’ultimo mandato, giurando che se ne andrà dal Parlamento, e dal partito, «senza nessun dispiacere». C’è aria di funerale persino tra i leghisti, e Sergio Divina, sorprendentemente, in aula ha dato voce a un loro rimpianto inaspettato: «Abbiamo una Costituzione perfetta, equilibrata, e qui la si scardina dall’inizio alla fine. Non possiamo accettarlo».

Il Senato ha accettato. Eccome. Oggi, 13 ottobre, puntuale come un orologio, la «fetenzìa» è passata al voto finale. Un senatore ex forzista di lungo corso ha preferito darsi malato, ma non si fa illusioni: «La schifezza passerà anche alla Camera».  Così il prossimo presidente della Repubblica (ma anche il governo, i giudici, i funzionari pubblici, i militari…) si ritroverà a giurare di rispettare lealmente, per dirla con l’ex ministro Mario Mauro, una «fantomatica supercazzola». Auguri.

 

 

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