“Non servono nuove leggi speciali nella battaglia contro bullismo, odio e violenza online”.

Sono queste le parole ripetute e scandite più volte dal Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini nel corso del seminario “No hate-speech. Parole libere o parole di odio?”, svoltosi ieri alla Camera.

Che siano un buon proposito per il futuro, una promessa o un’opportuna precisazione dopo le polemiche seguite all’intervista rilasciata dalla stessa Presidente della Camera a “La Repubblica”, conta, probabilmente, poco.

L’importante è prenderne nota in fretta ed affidarne il ricordo all’eterna memoria della Rete in modo che sia facile ripescarle domani, se e quando, eventi, contingenze o cose della politica dovessero scalfire quello che ieri la Presidente della Camera dei Deputati ha presentato come un proprio profondo e radicato convincimento.

“È chiaro che quello che è illecito off line è già illecito anche online”, ha detto l’on. Boldrini, prendendo in prestito le parole di Stefano Rodotà che nel suo intervento ha ricordato più volte come il web si limita a fare da cassa di risonanza alla società, amplificandone ogni eccesso, ivi inclusi quelli verbali e linguistici.

Un’occasione di confronto e di dialogo importante quella di ieri che ha messo comunque in luce, una volta di più, l’esistenza di due convinzioni contrapposte ed entrambe parimenti radicate: quella di un web culla di odio, violenza e bullismo contrapposta a quella di un web megafono di eccessi – anche violenti – che affondano, però, le proprie radici nella società nella quale manca la cultura del rispetto.

“Bisogna educare i giovani all’uso non violento del web e metterli in guardia dai pericoli che si celano nelle maglie della grande Rete”.

Parole queste che, sebbene con accenti diversi, sono risuonate più volte ieri nella sala del mappamondo della Camera dei Deputati.

Eppure a leggere i dati di uno studio commissionato da Save the children all’Ipsos del quale pure si è discusso ieri, sembrerebbe che i più giovani siano già sufficientemente – e anzi, forse, persino troppo – preoccupati dai pericoli provenienti dal web, pericoli che percepirebbero come maggiori persino rispetto alla droga.

Educare i giovani, quindi, è certamente opportuno ed è quanto ci si prefigge di fare nel corso della campagna “no hate speech“, del Consiglio d’Europa alla quale, ieri, l’Italia, per bocca del ministro delle Pari opportunità, Josefa Idem ha annunciato di aver aderito e lanciato nel nostro Paese.

Ma non basta.

Se il web è megafono della società e dei suoi eccessi violenti è alla radice del problema che occorre indirizzare ogni sforzo di educazione, formazione e alfabetizzazione.

Dobbiamo, educare gli educatori – famiglie e insegnanti – e dobbiamo esigere maggiore responsabilità dai media tradizionali che hanno avuto e conservano un ruolo fondamentale nella produzione di quelle sub culture che poi, inesorabilmente, trovano nella piazza digitale esattamente come nelle strade delle nostre metropoli sfogo e luogo – poco conta se fisico o virtuale – di esercizio, sperimentazione e attuazione.

Forse non servono processi ma solo prese di coscienza forti e irritrattabili ma, se proprio un processo dovesse celebrarsi, sul banco degli imputati, sin qui, troppo spesso occupato dal web, dovrebbe salire la televisione della quale, la società dei nostri tempi – forse in Italia più che altrove – è figlia come si è figli di un padre-padrone.

I modelli che i più giovani – e non solo – oggi “replicano” sul web facendo della violenza uno strumento di affermazione nella comunità fisica o virtuale di appartenenza provengono dal piccolo schermo di un tempo ed è dallo stesso piccolo schermo che provengono anche i falsi miti dei “bulli e pupe” e delle “pupe e secchioni” che, poi, sfortunatamente rimbalzano online condannando alla pubblica gogna giovani e meno giovani nelle piattaforme di social network.

Non si tratta di cercare un colpevole a tutti i costi né di voler spostare l’indice inquisitorio dal web alla Tv ma di riconoscere che, forse, sin qui, troppo spesso si è lasciato che la Tv, dietro a questo indice provasse a nascondere le proprie responsabilità talvolta persino amplificando quelle del web, additandolo di episodi dei quali è responsabile solo in parte.

Se, tuttavia, la televisione – quella “spazzatura” sebbene di successo e non tutta la televisione naturalmente – è parte in causa nel “non processo” che si è celebrato ieri alla Camera dei Deputati non ci si può esimere dal rilevare come, probabilmente, la nota più stonata dell’incontro di ieri è stata proprio rappresentata dalla scelta, almeno inopportuna, di aprirlo chiedendo ai genitori di due vittime del c.d. “bullismo online”, di prendere il microfono per raccontare il proprio dramma, il proprio dolore, la propria sofferenza.

Una forma di strumentalizzazione del dolore della quale ieri non si avvertiva il bisogno in una platea di addetti ai lavori perfettamente consapevoli delle possibili “derive” di un utilizzo violento del web e che ha ricordato – come annota bene Vittorio Zambardino in un’intervista a Wired – alcune tra le più brutte immagini della TV-spazzatura nelle quali il dolore altrui diventa “merce mediatica” o – ma non è diverso – mezzo di “posizionamento” di un dibattito.

Nessun dubbio sul fatto che si sia trattato solo del racconto di storie drammaticamente vere e toccanti ma, probabilmente, il rapido accenno fattone dalla Presiente della Camera nel suo intervento, sarebbe stato sufficiente.

Si è toccato con mano il problema degli “esempi” quelli che la politica – oggi più che mai sotto i riflettori – probabilmente dovrebbe imparare a dare meglio e di più.

 

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