Ci sono storie che dalla Sicilia faticano ad uscire. Rimangono impigliate tra i rovi della incantevole macchia mediterranea, si lacerano e sanguinano fino a morire senza riuscire ad oltrepassare lo Stretto.

Ignazio Cutrò, 41 anni, un’impresa edile, una moglie e due figli, per i pochi addetti ai lavori ormai è tristemente ripetitivo: quando vedi il suo nome apparire sul display del cellulare sai che ti sta comunicando un incendio, un danneggiamento, un bossolo sull’auto o l’acido nel motore dell’escavatore. Ben dodici attentati intimidatori da quando, nell’ottobre del 1999, ha denunciato le pressioni e le richieste di pizzo da parte della cosca del suo paese, Bivona, arroccato sui monti Sicani e rinomato per le pesche, meno per le cosche mafiose che in quella zona spadroneggiano. Più di una volta all’anno i mafiosi gli ricordano che loro ci sono, che non se ne vanno, che lo aspettano al varco. E lui, come sonore sberle, gli manda indietro gli avvisi, continuando a lavorare nella sua terra, prendendo appalti e cercando di portarli a compimento. Certo ai suoi mezzi serve «manutenzione straordinaria», ma per il resto Cutrò non molla.

Ha fondato la prima associazione antiracket agrigentina, Libere Terre, ed è entrato nel programma dei testimoni di giustizia con una vigilanza di 4° livello: una scorta minima che lo accompagna solo durante gli spostamenti. Quando raggiunge la sua casa, in aperta campagna e isolata del paese, in gergo tecnico si può dire che sono affaracci suoi. Agli uomini che lo accompagnano durante la tutela, mesi fa avevano assegnato un’auto blindata; poi c’hanno ripensato e l’hanno voluta indietro, avendone bisogno, probabilmente, per qualche politico agrigentino ad alto rischio di suicidio. Il 5 agosto scorso, all’una di notte, sconosciuti hanno disegnato con dei lumini funebri una croce a cento metri da casa sua, di fronte al cancello da cui si accede alla sua proprietà. Hanno avuto il tempo di completare il disegno, curare la grafica e la composizione in stile Barocco, e alla fine di accenderli. Tutto questo a cento metri dall’abitazione di un imprenditore che per lo Stato è ad elevato rischio di vita. Lo hanno svegliato i carabinieri chiedendogli se fosse stato Cutrò stesso, magari per ricordare qualche caro defunto. Purtroppo quei lumini erano per lui, da parte di amici che vorrebbero fargliene dono in un cimitero.

Raggiunto al telefono per l’Antefatto, Cutrò è apparso turbato ma ancora più motivato nella sua lotta: «Stanno alzando il tiro, tastano il terreno per farmi capire che si possono avvicinare, che nessuno controlla la mia casa. Negli ultimi periodi ho sentito che qui intorno, di notte, ci sono strani movimenti, e i miei cani più di una volta hanno fatto scappare qualcuno che si era avvicinato troppo. Ho paura perché non vivo da solo, e se dovessero far del male alla mia famiglia non me lo perdonerei». Dopo quest’ennesimo avvertimento, l’idea di lasciare la Sicilia lo attanaglia, e per la prima volta la prende seriamente in considerazione: «Così certo non si può andare avanti. Io ormai non dormo più, rimango sempre sveglio, all’erta. Se nessuno potrà darmi tranquillità, allora me ne andrò, ma a perdere sarà l’Italia, non certo io».

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