Come si vince la sfida alla corruzione e al riciclaggio nell’era dell’offshore? Come si rintraccia il beneficiario finale di un trust? L’ultimo rapporto di Transparency International ha messo a nudo la situazione in alcuni Paesi europei, compresa l’Italia, tra debolezze e possibili soluzioni. Dal dossier Enhanching beneficial ownership transparency saltano fuori quattro ‘buchi neri’ legislativi e tre sotto il profilo pratico. Dalla copertura dei registri dei titolari effettivi non sufficientemente ampia alla mancanza di accesso dei cittadini allo stesso registro: “Solo in due Paesi l’accesso è pubblico. Dietro le società ombra si nasconde di tutto, è quindi importante conoscere il beneficiario finale. A volte neanche la pubblicazione amministrazione si pone la domanda, come è accaduto con la società mista del comune di Savona che si occupava della raccolta dei rifiuti. La parte privata aveva il controllore finale in un paradiso fiscale”, spiega Virginio Carnevali, presidente di Transparency Italia.

C’è poi la questione legata al registro dei titolari effettivi, attualmente in fase di approvazione, che includerà solo quelle società che hanno i trustee in Italia. E manca nel nostro Paese una regolamentazione chiara nel caso di rapporto tra ente pubblico e fornitori o concessionari che hanno titolare effettivo dubbio e sedi in paradisi fiscali. Uno dei casi caldi in questi mesi è stato quello della nuova proprietà del Milan, che come club ha rapporti con il Comune per la concessione di San Siro. David Gentili, consigliere presidente della commissione comunale Antimafia, è tornato a parlarne nel corso della presentazione del rapporto: “Abbiamo l’obbligo, secondo me, di conoscere i titolari effettivi per dare una concessione. È molto poco chiaro agli stessi cinesi chi ha comprato il Milan e persistono forti preoccupazioni sulla loro onorabilità – ha detto – Noi faremo le nostre richieste, vediamo cosa ci rispondono. Non so fin dove potremmo spingerci, di certo avranno un danno reputazionale grave se non dovesse fornire un curriculum”.

Un caso tipico che potrebbe essere chiarito se venissero attuate le ‘raccomandazioni’ di Transparency: rendere pubblico l’accesso ai registri, includere negli stessi le società nazionali, quelle straniere e tutti i trust operanti sul territorio nazionale, aumentare l’efficacia delle verifiche, inasprire le sanzioni in caso di false comunicazioni e vietare esplicitamente alla pubblica amministrazione di stipulare accordi con società di cui non sia possibile risalire al titolare effettivo. Tutti potenziali argini per proteggere la reputazione e combattere il conflitto d’interesse che risultano tra le principali preoccupazioni dei top manager secondo l’indagine Anti-Bribery and Corruption benchmarking, realizzata da Kroll in collaborazione con Ethisphere Institute.

I 388 dirigenti di aziende – con fatturato medio tra 1 e 5 miliardi dollari – che sono stati interpellati per costruire il report mettono il rischio reputazionale e il conflitto d’interesse in testa alle loro paure, probabilmente come effetto di scandali come quello Volkswagen. E il 40% di vertici aziendali individua il punto debole nel rapporto con fornitori, agenti o clienti, trasformandola nella prima causa di cessazione dei rapporti delle multinazionali con queste controparti. “Si tratta spesso di piccole o medie aziende, che rappresentano la base della nostra economia. Siamo quindi tra i Paesi più osservati dalle multinazionali”, spiega la responsabile per il sud Europa di Kroll, Marianna Vintiadis. Ma perché il conflitto d’interesse spaventa tanto? “È una delle cause primarie della corruzione privata – aggiunge Vintiadis – Quest’ultima causa danni economici significativi alle imprese e in molti paesi è reato. Ignorarli è un pericolo da non sottovalutare sul piano economico e normativo”.

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