Maria Elena Boschi, Graziano Delrio, Piero Fassino e, infine, lo stesso Matteo Renzi: tutti a negare di aver riempito il Palazzo del potere di amici fiorentini e di amici degli amici fiorentini. È, in pratica, la linea (politica) difensiva di fronte all’inchiesta Consip che vede indagato Luca Lotti e annovera tra gli accusatori Luigi Marroni, altro toscano nominato dal governo Renzi. Nel salotto di Bruno Vespa l’ex premier ha, fra l’altro, dichiarato: “Il sistema di potere toscano è solo negli editoriali, non nella realtà”. E ancora, in un’intervista a La Stampa: “Quattro o cinque toscani quarantenni o giù di lì: questo sarebbe il mio sistema di potere? Eni, Enel, Ferrovie, Poste, Rai, Finmeccanica… Al vertice non c’è nessun fiorentino: e i vertici li ha nominati un governo da me presieduto. Sono sereno: le bugie hanno le gambe corte”.

Questa linea difensiva è con ogni probabilità fondata su una speranza: l’ignoranza da parte dei cittadini sulle nomine compiute in quei mille giorni di occupazione di Palazzo Chigi. Per colmare l’eventuale lacuna è necessario stilare una sommaria e breve guida ai nominati. L’elenco completo è decisamente lungo, quindi va fatta una selezione. Evitando di citare i nomi ormai diventati noti, come Luca Lotti e Maria Elena Boschi, accendiamo un faro sui meno conosciuti. Tutti accumunati dai natali: toscani, appunto. I renziani, fra l’altro, spesso viaggiano a coppie. Nicola Centrone, ad esempio, dall’ufficio di Dario Nardella è sbarcato nel Palazzo come capo della segreteria di Luca Lotti. Con lui nella Capitale è arrivata anche la moglie, Veronica Catania, assegnata all’ufficio stampa di Giachetti. Con Lotti lavora anche Eleonora Chierichetti, al seguito di Renzi da quando questo aveva il ciuffo e gli occhiali ed era presidente della Provincia. Come Franco Bellacci. Lui era il tuttofare fiorentino. E tuttofare è rimasto. Ma a Roma. Da Palazzo Medici Riccardi a Chigi è arrivata pure Francesca Grifoni, ex Florence Multimedia, la tv messa in piedi da Renzi ai tempi della provincia esclusivamente per divulgare il suo verbo. Ancora: Giovanni Palumbo, capo di gabinetto in Provincia, poi Palazzo Vecchio e capo della segreteria tecnica a Palazzo Chigi. L’ex assessore ai trasporti della giunta Renzi, Filippo Bonaccorsi, è stato nominato dal Governo capo della struttura tecnica di missione per il rilancio dell’edilizia scolastica. La sorella Lorenza è responsabile cultura del Pd. Erasmo D’Angelis dopo aver guidato Publiacqua, la municipalizzata di Palazzo Vecchio, è stato portato a Roma come capo struttura di missione per il dissesto idrogeologico. Dopo un anno Renzi gli ha affidato un compito più gravoso: dirigere il quotidiano l’Unità. Sempre dissesto era, seppur non idrogeologico.

Il solco rimane quello ripetuto da Renzi: “Scelgo le persone in base ai meriti e alle competenze”. Soprattutto per le controllate. Una rapida carrellata: l’esecutivo nato a Rignano ha nominato Alberto Bianchi nel consiglio di amministrazione di Enel. Chi è Bianchi? Con ogni probabilità uno dei pochi, se non l’unico, ad avere compiuto un percorso professionale senza l’aiuto dell’amico Matteo. Che lo arruola nel 2009. Bianchi è tesoriere della fondazione Big Bang prima e Open poiAiuta l’ex premier a liberarsi delle associazioni Festina Lente e Link che dal 2007 al 2011 raccolgono i soldi. Bianchi è un avvocato. Bravo. Stimato. Riservato. Per inciso: il fratello Francesco Bianchi è stato nominato commissario straordinario del Maggio musicale Fiorentino.

Sempre da associazioni e fondazioni renziane arriva Marco Seracini, commercialista di fiducia renziano, nominato sindaco effettivo di Eni. Qui Renzi manda anche Lapo Pistelli, quello che a Matteo ha dato il primo lavoro: il portaborse. Pistelli è stato nominato dall’esecutivo dell’ex rottamatore vicepresidente senior di Eni con un compenso annuo di circa un milione di euro. Va detto: Pistelli era viceministro degli Esteri e ha lasciato la politica il 15 giugno 2015. Dopo due settimane, il primo luglio, l’incarico all’Eni. Il capo non seleziona solo chi guida le fondazioni, ma seleziona anche tra chi le finanzia. Come Fabrizio Landi, arrivato nel cda di Finmeccanica. Elisabetta Fabri, presidente degli StarHotel, è nel cda di Poste. Nel cda di Ferrovie ha fatto il suo ingresso Federico Lovadina, socio del tesoriere nazionale del Pd Francesco Bonifazi.

Inutile poi parlare degli ormai noti. Come l’ex vigilessa Manzione portata a Palazzo Chigi come responsabile dell’ufficio legislativo. O di Marroni, ex assessore regionale poi approdato in Consip. O dei vertici della fondazione Open composto da Luca Lotti, Maria Elena Boschi e Marco Carrai. A quest’ultimo non è riuscito ottenere l’incarico che l’amico Matteo gli aveva promesso: diventare responsabile della cyber security. Quando il Fatto ha dato notizia della volontà renziana la nomina è stata bloccata: Carrai ha infatti società in Lussemburgo, Italia e Israele, oltre all’incarico nella cassaforte dell’ex premier. Insomma: qualche possibile conflitto di interessi. L’altra nomina tentata ma non andata a buon fine è stata quella di Andrea Bacci alla Telekom sparkle. Sì, quel Bacci: socio di Tiziano Renzi negli anni ’80, nominato da Matteo prima alla guida di Florence Multimedia, quando era in provincia, e poi in altre controllate appena sbarcato a Palazzo Vecchio. Lo stesso Bacci contro la cui macchina poche settimana fa hanno sparato a colpi di fucile per invitarlo a saldare un debito pregresso di quasi trecento mila euro.

C’è poi Tiberio Barchielli. Un nome sconosciuto a molti. Oltre a essere nato e cresciuto a Rignano sull’Arno, feudo dei Renzi, c’è pure quasi invecchiato: classe 1958, all’età di 57 anni ha lasciato il paesello, dove gestiva un sito di gossip, per raggiungere Roma e fare il suo ingresso a Palazzo Chigi come fotografo del presidente del Consiglio. È ancora lì. La lista, come detto, è incompleta. Perché il carro che da Firenze ha accompagnato Renzi a Roma è davvero affollato. E seppure lui se ne sia andato, i suoi son rimasti lì. Eppure, dice l’ex premier, non è vero che i palazzi sono stati riempiti di amici toscani.

Articolo Precedente

Senato, da 235 giorni salvano Minzolini dalla decadenza. Lui incassa 10mila euro al mese. Dal 2023 anche la pensione

next
Articolo Successivo

Senato, Pd e Fi salvano Minzolini e rottamano la Severino. Farsa finale: ‘Ho vinto, mi dimetto’. Ma serve altro voto

next