La riforma subito in Aula, saltando la commissione e con i voti a favore anche della minoranza Pd. Dopo una giornata di proteste delle opposizioni è stato lo stesso Senato ad approvare l’accelerazione dei tempi voluta da Matteo Renzi. Il governo ha infatti chiesto e ottenuto che il ddl Boschi che modifica la Costituzione sia discusso dall’assemblea già domani (17 settembre), evitando completamente la prima fase di dibattito e senza avere il via libera del relatore. Non è servito a niente il ritiro degli emendamenti di Lega Nord (solo 500mila presentati da Calderoli) e Forza Italia e nemmeno la richiesta di fare un comitato ristretto per valutare le richieste di modifica. A decidere la corsa a maggioranza, e non all’unanimità, è stata la conferenza dei capigruppo. Il calendario poi ha dovuto affrontare il voto dell’Aula. Il primo ostacolo per il governo Renzi è stato però superato senza particolari problemi: nonostante le polemiche il partito si è schierato per arrivare subito al dibattito. Nel primo voto i “no” alle proposte alternative sono stati 173 (la maggioranza assoluta che serve in Senato a Renzi è 161), i sì 99 e 3 gli astenuti. Numeri ripetuti nelle altre votazioni. “77 voti di margine”, ha commentato il capogruppo Pd Luigi Zanda, “sono una forbice molto ampia, un segnale forte e positivo di una chiara volontà del Parlamento: rifiutare ogni tattica ostruzionistica e approvare rapidamente la riforma che serve al Paese”.

Video di Manolo Lanaro

Renzi pensa quindi di essere tranquillo perché in un modo o nell’altro troverà i numeri che gli servono. Per tutta la giornata però, le opposizioni hanno cercato di bloccare la corsa dell’esecutivo. Da Fi ai 5 Stelle, la condanna è stata unanime: “Siamo di fronte a una forzatura inaccettabile”, ha detto il capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani. “Fate schifo, siete una vergogna”, ha commentato invece il grillino Gianluca Castaldi. “Renzi mostra i muscoli, ma non ha i numeri”, ha detto invece Loredana De Petris di Sel. In agitazione anche e soprattutto la minoranza Pd che però alla fine ha deciso di votare a favore della calendarizzazione: “Si lascino spazi di discussione al Parlamento”, ha detto l’ex segretario Pier Luigi Bersani. Ora la questione passa nelle mani del presidente Pietro Grasso che dovrà stabilire se gli emendamenti all’articolo 2, ovvero quelli per l’elettività diretta del Senato, sono o meno ammissibili. “Le scelte a questo punto sono innanzitutto politiche”, ha detto il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti. “e saranno impedite sino a che non ci sarà un’autonoma pronuncia del presidente del Senato circa l’ammissibilità degli emendamenti. Per questo occorre che il provvedimento giunga all’Aula. È un atto di responsabilità e di trasparenza”. Le riforme costituzionali saranno quindi incardinate il 17 settembre a partire dalle 9,30, dopo il ddl sulle missioni internazionali ove sia completato il parere della commissione Bilancio. Il presidente Grasso ha precisato che saranno “sedute uniche” senza interruzioni quindi, se non quelle decise dalla presidenza.

Il tentativo delle opposizioni di fermare la corsa dell’esecutivo si è concretizzato a metà mattina con il ritiro delle centinaia di migliaia di emendamenti presentati per fare ostruzionismo. Il primo ad annunciarlo in commissione Affari costituzionali è stato Roberto Calderoli che da solo aveva firmato oltre mezzo milione di proposte di modifica al testo. Subito dopo anche Anna Maria Bernini per il gruppo berlusconiano si è detta disponibile a mettere da parte le proprie proposte di modifica. Una mossa giudicata dalla maggioranza come semplice “strategia di ostruzionismo”. Le opposizioni poi hanno chiesto la convocazione di un comitato ristretto (con un rappresentante a gruppo) per discutere nel merito le proposte di modifica rimaste in piedi (tra cui quelle M5S). I Cinque Stelle hanno tra l’altro legato il ritiro degli emendamenti da parte di Calderoli con il voto del Senato sull’autorizzazione a procedere nei confronti dello stesso senatore nel processo per il paragone tra l’ex ministro Kyenge e un orango.

Visto che il nodo politico è tutto interno al Partito democratico – con l’ennesimo braccio di ferro con la minoranza – Renzi ha deciso di convocare per il 22 settembre una direzione Pd. Secondo la ricostruzione dei 5 Stelle, durante la riunione dei capigruppo la presidente Anna Finocchiaro avrebbe ammesso che il problema “non sono gli emendamenti, ma le rotture interne al Pd”. Roberto Speranza, uno dei leader della minoranza democratica, ha chiesto al segretario di “evitare prove muscolari” (il riferimento è proprio alla direzione del partito dove i renziani hanno una maggioranza schiacciante). Concetto esteso dall’ex ministro per le Riforme Vannino Chiti: “L’esito della Direzione di lunedì. Servirà solo a ribadire la linea della maggioranza Pd” e non avrà conseguenze sul piano parlamentare perché “sulla Costituzione c’è libertà di voto”. “Si possono fare anche venti direzioni”, ha detto, “ma se non c’è la volontà di arrivare a un accordo… Mi ero illuso che finalmente potessimo trovare un punto di intesa e invece quella proposta è sparita dal tavolo ma se Renzi ha a cuore l’unità del partito quella resta la strada. Poi se questo interesse non c’è…”.

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