Harare, Zimbabwe. Gennaio 2011. Antonino Messicati Vitale, boss di Cosa Nostra, atterra in un jet privato. Ha con se un bagaglio che non può passare dalla dogana, un baule stracolmo di dollari americani. Viaggia protetto e si fa strada nella calura dell’estate australe fino alle miniere di Marange. Non è certo la prima volta che deve chiudere un affare importante, ma questa volta anche lui dev’essere stato un po’ nervoso: Antonino ha in mano l’affare del secolo, roba da fare concorrenza al fu Cecil Rhodes, affamato cacciatore di diamanti e conquistador di quella terra, una volta chiamata Rhodesia in suo onore. Antonino è atteso, in cambio dei suoi dollari fruscianti lo aspetta un carico da un milione di carati di pietre grezze. Duecento chili di diamanti voleranno via dal paese in segreto, senza controlli di frontiera e con il benestare dell’oligarchia del Paese che avrà in cambio una fetta della torta. Ma il colossale acquisto è solo il primo passo, pochi giorni dopo Antonino è a Pretoria, capitale del Sudafrica, a firmare un accordo che assicurerà un flusso ininterrotto di diamanti zimbabwesi verso l’Europa.

E’ il 19 gennaio 2001 e al tavolo della trattativa siedono Antonino Messicati (nella foto il penultimo a destra) e altri sei uomini d’affari sudafricani e zimbabwesi. Sul tavolo l’accordo per il lancio della “Zimbabwe Diamond Opportunity”: 30mila carati al mese verranno tagliati a Harare e poi commercializzati in Europa grazie a una occulta azienda maltese. Un altro milione di carati sarà assicurato in meno di tre anni. A garantire l’approvvigionamento e il taglio dei diamanti è un’associazione di trader locali autorizzati dal governo, chiamata ‘Zimgroup’ nel contratto. A mettere il capitale e i canali per l’export è un gruppo di investitori stranieri, l’‘Ingroup’.

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L’uno non può fare a meno dell’altro, perché da quando il governo di Mugabe ha dovuto ratificare il Kimberly Process, un accordo internazionale che cerca di prevenire l’ingresso nei circuti legali dei cosiddetti ‘blood diamonds‘, fare uscire diamanti grezzi dallo Zimbabwe è vietato. I diamanti grezzi sono il Santo Graal del riciclaggio: non hanno un prezzo fisso, il loro valore può mutare come per magia in base a come vengono valutati: si devono contrabbandare fuori da un paese? Viaggeranno con una valutazione al minimo. Devono servire da contropartita per un prestito o certificato di credito? Verranno valutati al massimo. E non importa che siano insanguinati, Cosa Nostra non si fa certo scrupoli: trova il compratore giusto e le pietre finiscono fianco a fianco a quelle autorizzate, nelle gioiellerie di tutto il mondo.

Ma anche i diamanti lavorati possono servire al riciclaggio, e Cosa Nostra lo sa. Quando si hanno milioni guadagnati dal traffico di droga che non si possono dichiarare al fisco, non c’ è nulla di meglio dell’acquisto di diamanti. E cosi, si da il via alle danze con la ‘Ingroup’, guidata da un volto incensurato: Salvatore Ferrante, cittadino sudafricano di seconda generazione, pronto a fare l’uomo in doppiopetto del cugino Messicati Vitale.

Ad aprire le porte dell’Africa ci pensò Vito Roberto Palazzolo, il più abile banchiere che Cosa Nostra abbia mai avuto. Entrato in Sudafrica da latitante nel 1986, costruisce un vero proprio impero, tra miniere di diamanti in Angola, laboratori di taglio dei preziosi in Namibia e affari miliardari che assicura a governi africani corrotti, imprenditoria internazionale e, ovviamente, alla mafia. Ma oggi che Palazzolo è incarcerato al 41bis dopo essere stato scovato in Thailandia nel 2012, Cosa Nostra ha dovuto cercare nuovi canali per investire nel continente nero.

L’ASSE PALERMO-HARARE
Salvatore Ferrante ha un legame a doppio filo con la sua terra d’origine, la Sicilia. A Palermo, tra i decadenti edifici del centro e le meravigliose statue barocche sporcate dal traffico, c’è un dentista che a molti boss di mafia ha guardato in bocca. Negli ultimi anni ai clienti non ha proposto denti d’oro, ma traffici di diamanti. È lo zio di Salvatore, e pur non sapendo indicare Harare sul mappamondo, ha ben chiaro il suo ruolo cardine: deve trovare gli investitori, metterli in contatto con Salvatore che poi penserà al resto. Ma alla Cupola serve una garanzia in più, perchè certe decisioni le può prendere solo un uomo d’onore, e cosi viene scelto Antonino per il viaggio nel continente nero.

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Messicati Vitale è giovane e pieno di risorse. Condannato per mafia nel 2000, sconta la pena, torna sul trono, scappa a Bali, rientra in Italia scortato dai carabinieri, rimane a piede libero un anno e viene fermato definitivamente a ottobre 2014 mentre, con una maschera in silicone, si preparava ad un ritorno in Africa. Boss indiscusso di Villabate, Antonino ha imparato a sparare quando militava nel gruppo di fuoco di Bernardo Provenzano. Da “Zio Binnu” però ha imparato anche l’arte degli affari, che vengono “prima delle pallottole”, come comanda anche l’attuale capo dei capi Matteo Messina Denaro. Non è dato sapere se sia stato Messicati Vitale il primo a cogliere un’opportunità nascosta nel suo albero genealogico, o se siano stati gli incensurati parenti sudafricani a cercarlo per primi, poco importa: il sangue non è acqua, e per la mafia è il legame più forte, indelebile e resistente a migliaia di chilometri di distanza.

La famiglia Ferrante in Sudafrica c’è arrivata alla fine degli anni ‘50, quando Salvatore Ferrante senior, padre del nostro trader di diamanti e fratello della nonna di Messicati Vitale, lascia la terra natia per finire a lavorare nelle miniere d’oro di Springs, nel Gauteng orientale, non lontano da Johannesburg. Con la sua sposa sudafricana, Wilhelmina Marais, Salvatore mette su una grande famiglia di sei figli, nell’ordine Salvatore junior, Giuseppina, Alberto, Anna Maria, Carmelo e Bianca. Ai Ferrante piace ostentare: sui loro social network pubblicano foto di bella vita in famiglia: ville in campagna, macchine di lusso, cavalli da corsa, nidiate di pitbull e addirittura un tigrotto, a passeggio sul bordo piscina.

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Per i Carabinieri di Palermo questa famiglia diventa interessante a fine 2010, quando Messicati Vitale li va a trovare per la prima volta. Non sono mai stati indagati per mafia, ma i Carabinieri vogliono vederci chiaro. Cercando di capire lo scopo del viaggio di Antonino, gli inquirenti scoprono il sito web dell’azienda diamantifera dei Ferrante. Ed ecco la sorpresa: tra i documenti caricati del sito spunta il volto del capomafia di Villabate. Immortalato tra i partner della “Zimbabwe Diamond Opportunity”.

UN NUOVO ACQUISTO IN FAMIGLIA
C’è un altro volto importante ritratto nelle foto della trattativa, ed è quello dell’uomo senza il quale i Ferrante, e Antonino, non sarebbero mai entrati nel business nei diamanti: Louis Petrus Liebenberg (nella foto qui sotto). E’ in base alle sue testimonianze, messe agli atti di un procedimento intentato in Sudafrica, che Irpi è stata in grado di ricostruire la storia degli investimenti del boss Messicati Vitali nel continente. Liebenberg è un grosso dealer del settore, originario di Port Nolloth, una cittadina di mare a pochi chilometri dall’Orange River che segna il confine con la Namibia, dove si estraggono dal fondale marino i migliori diamanti al mondo. È qui che Liebenberg era riuscito ad ottenere la ‘Concession 10‘, dove “sul fondo ci sono almeno due milioni di carati di diamanti della massima qualità gemmologica. L’Orange River ha trasportato le pietre per 240 chilometri fino al mare, lavandone ogni impurità.” E siccome la Concession 10 è uno dei rari depositi marini fuori dal controllo statale, l’imprenditore la quota alla Borsa di Londra tramite la sua “Wealth4u Mining and Exploration LTD”, l’azienda titolare della concessione.

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È il 2008, Liebenberg sta vivendo un costoso e complicato divorzio, ma incontra Pina Ferrante, la figlia maggiore di Salvatore senior, e se ne innamora perdutamente. Quello che però non poteva sapere è che stava andando a finire nella tela del ragno. Gli Afrikaans come lui non sono abituati al calore della famiglia mediterranea, e quello dei Ferrante lo sorprende del tutto: “Eravamo sempre a pranzo e cena tutti assieme, mi sentivo di famiglia”. Amato e viziato, Liebenberg non si sente minacciato quando Pina gli propone una soluzione per difendersi dalle pretese della moglie: usare lei e la sua famiglia come prestanome per tutti i suoi beni. La proposta finisce per convincerlo. Le parti scrivono un accordo che Liebenberg metterà in cassaforte, sicuro che basti a proteggere il suo tesoro perché, racconta con rammarico a IRPI, “avrei dato la vita per Pina, mi fidavo ciecamente”.

Anche Wealth4u, il fiore all’occhiello di Liebenberg, deve passare a Pina per non essere toccata dalla causa di divorzio: viene così liquidata e il suo capitale, inclusa la concessione 10, trasferito alla African Dune della donna, l’azienda scovata dai Carabinieri di Palermo mentre indagavano su Messicati. Il futuro sembra roseo su tutti i fronti e i Ferrante sono pronti ad espandersi verso nuovi orizzonti.

LA COLONIZZAZIONE
Ma le miniere richiedono tempo ed investimenti, e i Ferrante vogliono comprare diamanti subito, da più Paesi possibili. Liebenberg deve aiutarli e aprire il suo prezioso libro dei contatti alla famiglia italiana. Il primo passo si fa in Repubblica Democratica del Congo: qua il sudafricano già commerciava con esponenti governativi trattando i diamanti del Kasai Occidentale e Orientale, entrambi famosi per le gemme che se ne estraggono.

Poi c’è la volta dell’Angola. Questa volta sarebbero i Ferrante ad avere un asso nella manica, a quanto racconta Liebenberg la famiglia vanta un’amicizia storica con Franco D’Arrigo, figlio di un emigrante italiano che ha lavorato nelle miniere d’oro assieme a Salvatore padre negli anni ‘60. I D’Arrigo hanno fatto più fortuna dei Ferrante e oggi possiedono la Elco Steel, una delle più importanti industrie siderurgiche del Sudafrica, che opera anche in Angola, dove D’Arrigo conoscerebbe bene Isabel Dos Santos, la figlia del presidente, amica intima anche di Vito Roberto Palazzolo (ma lei lo nega), il banchiere di Cosa Nostra, che – racconta Liebenberg – sarebbe amico storico anche dell’imprenditore Franco D’Arrigo.

sea-concessions-map-340Ma le amicizie altolocate non bastano, serve qualcuno che possa parlare di diamanti con competenza tecnica.
Ecco entrare allora in scena Marius de Kock, socio di Liebenberg e rampollo di una famiglia prestigiosa che ha avuto ben due governatori della South African Reserve Bank. De Kock ha fatto carriera nel settore dei diamanti, ed è ‘sight-holder’ per la De Beers: è cioè autorizzato a comprare e vendere pietre grezze per la più importante azienda di diamanti del mondo. È D’Arrigo che avrebbe fornito contatti presidenziali in Angola, ma è Marius de Kock che sarebbe andato di persona a cercare i diamanti giusti per la famiglia italiana. Purtroppo a questa storia mancano tasselli fondamentali, perché né Marius De Kock né Franco D’Arrigo hanno risposto alla richiesta di commento dei giornalisti di Irpi.

Ma il paese dove i Ferrante hanno fatto davvero fortuna è lo Zimbabwe. Anche qui Liebenberg ha amicizie altolocate, come il prefetto delle miniere di Marange che garantirà i permessi per dar vita alla “Zimbabwe Diamond Opportunity”. Marius de Kock è presente anche in questo affare: accompagna gli investitori nel paese e si assicura che i diamanti siano di qualità.

MARANGE: UN BAGNO DI SANGUE
I diamanti della “Zimbabwe Diamond Opportunity” vengono dai depositi di Marange, i più grandi e importanti del Paese. Concessi al colosso De Beers fino al 2006, vengono poi occupati da migliaia di civili, minatori fai da te in cerca di qualche gemma, di un colpo di fortuna che li liberi dalla miseria. Ma nell’ottobre del 2008 il presidente Mugabe e il suo partito Zanu decidono che è ora di fare fruttare la miniera. Si da il via all’operazione“Hakudzokwi”, ovvero “Senza ritorno”. Centinaia di militari entrano nell’area e a colpi di kalashnikov massacrano migliaia di civili. Vengono trucidate intere famiglie, donne, bambini. L’operazione, una delle pagine più oscure della storia d’Africa, dura meno di una settimana ma svuota la miniera da tutti i civili. Da allora i diamanti dei campi di Marange sono considerati ‘blood diamonds’ e interdetti dal commercio internazionale dal Kimberly Process.

Quale occasione migliore per un compratore come Antonino Messicati Vitale? Marange è perfetta per riempire il baule del boss di Villabate. Liebenberg lo ha scoperto per caso. “Quando Antonino è venuto in Sudafrica è stato a casa mia e di Pina un mese”, racconta ad Irpi. “Mi è stato presentato solo come il ‘cugino Tony‘, ricco e siciliano. Dopo un viaggio in Zimbabwe, in cui non sono stato invitato, Antonino è tornato con un milione di carati di diamanti, comprati in contanti.”

Il prezzo dei diamanti di Marange può variare moltissimo. Il minimo è 70 dollari a carato, ma può arrivare anche a 450 “se il compratore lo richiede” spiega ai giornalisti di Ancir una fonte interna al parlamento zimbabwese, “e se si vanno a comprare pezzi di alta qualità direttamente da chi gestisce le miniere”. Una transazione da capogiro: una cifra fra i 70 e i 450 milioni di dollari in contanti. Sembra impossibile, ma ci assicurano che non sarebbe la prima volta che accade in Zimbabwe. La stessa fonte parlamentare ci spiega che “gli intermediari arrivano in aereo, comprano, e volano via senza controlli. L’esercito c’è dentro fino al collo”.

Dove siano ora le pietre del baule è difficile immaginarlo, ma le possiamo immaginare nella cassaforte di qualche fiduciaria ai Caraibi o al dito di qualche ricca signora europea, che inconsapevole sfoggia una gemma pura solo in superficie: dietro c’è il denaro di Cosa Nostra e il sangue dei civili trucidati a Marange.

Le aziende che oggi lavorano nelle miniere maledette, sotto l’occhio vigile dei militari di Mugabe, parlano tutte cinese. Si tratta di una spregiudicata joint-venture fra governo e Repubblica Popolare Cinese, che – oltre ad appoggiare la violenta campagna elettorale 2013 ha scavato all’impazzata arrivando quasi all’esaurimento delle vene minerarie e contribuendo fortemente al picco della produzione raggiunto nel 2012 con circa tre miliardi e mezzo di dollari in diamanti grezzi.

LA GUERRA
Liebenberg non sa dire se tutt’oggi i Ferrante si riforniscano da Marange, ma sostiene che lo abbiano fatto almeno per tutto il 2011. I suoi rapporti con i Ferrante si interrompono bruscamente all’inizio dell’anno 2012, quando la Concessione 10 finisce sotto sequestro giudiziario a causa di un incidente mortale nel cantiere. Liebenberg fa il diavolo a quattro per ottenere la restituzione del “suo tesoro” ma non trova supporto nei Ferrante. Per la prima volta l’uomo cade dalle nuvole e si rende conto che alla famiglia la Concession 10 non interessa; devono comprare e rivendere partite di diamanti, in un flusso rapido che possa soddisfare gli appetiti del cugino boss. Per Antonino, e per Cosa Nostra, lo scopo non è ‘produrre’ ricchezza nel lungo termine, ma concentrarne molta e subito in poco spazio.

Con prospettive così diverse diventa ovvio che il romanzo d’amore tra Liebenberg e Pina Ferrante sia arrivato al capitolo finale. Ma Pina, come il paziente ragno che tesse la tela, ha un’ultima missione da portare a termine. Liebenberg racconta di essere stato convinto a passare ancora una notte insieme, ma di aver trovato la mattina dopo la polizia alla porta, pronta ad ammanettarlo per stupro. Liebenberg viene sbattuto in galera 11 lunghi giorni ma poi assolto per mancanza di prove. Nessuno gli ripagherà lo smacco, ma soprattutto nessuno gli ridarà i diamanti e il contratto che tutelava i suoi beni e che Pina nel frattempo aveva prelevato dalla cassaforte del loro appartamento.

L’imprenditore Afrikaan a quel punto si trova in mutande e capisce la vera portata della truffa. Trascina Pina in tribunale per riprendersi beni e miniere ma mentre la battaglia legale è ancora tutta da combattere, Liebenberg racconta di ricevere, “ancora minacce di morte anonime al telefono”. Dal canto suo Pina non sembra vacillare, e tanto meno vacilla la famiglia Ferrante che, si narra nei luoghi che contano di Johannesburg, sta “volando” con gli affari. I Ferrante non sembrano nemmeno preoccuparsi di quella parentela e di quegli affari che li legano a Cosa Nostra. Pina e Salvatore Ferrante si sono rifiutati di commentare sul perché, senza batter ciglio, abbiano avviato il business dei diamanti con il cugino boss.

PIU DIAMANTI PER LA MAFIA, PIU POVERTA’ PER I POPOLI
Cosa Nostra, oggi sotto la sapiente guida di Matteo Messina Denaro, ha saputo mimetizzarsi nel capitalismo internazionale senza perdere le radici culturali e criminali che la rendono indistruttibile. I suoi soldi sono liquidi, presenti, esentasse e sempre disponibili. In un flusso sempre crescente penetrano rapidi i circuiti legali anche grazie a una vasta area grigia che presta i suoi servigi alla Mafia Spa.

Liebenberg dal canto suo assicura di avere scoperto “dalla stampa” solo dopo la fine della love story la vera identità di Antonino. Difficile esserne certi, ma non è la prima volta che l’imprenditore tenta di uscire allo scoperto. Su un articolo pubblicato da InformarexResistere nel 2012 aveva commentato chiedendo di “parlare con il giornale”. Nessuno però lo ha mai cercato, e quando Irpi lo ha contattato a gennaio 2014 non vedeva l’ora di raccontare come “inspiegabili flussi di denaro entrassero nelle casse dei Ferrante dalla fine del 2011, poco prima della mia uscita di scena.”

Di Giulio Rubino e Cecilia Anesi*
Infografiche di Davide Mancino
Ha collaborato Khadija Sharife

*Questa inchiesta è stata condotta dal centro di giornalismo d’inchiesta Irpi (Investigative Reporting Project Italy) in collaborazione con il corrispettivo africano Ancir e i data scientist di Quattrogatti, in sette mesi di ricerca supportati dall’Innovative Journalism Grant e dal Journalism Fund

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