Ieri un documento del CUN, il Consiglio Universitario Nazionale, che potete leggere qui, ha riportato sulle prime pagine dei giornali la situazione in cui vive l’università italiana. Il documento sottolineava che il sistema universitario vive una situazione di emergenza, e con accuratezza e sintesi riportava una lista di grafici e dati a cui la politica dovrà rispondere.

Il dato che più ha attratto l’attenzione della stampa è il seguente: “Secondo i dati MIUR (Anagrafe Nazionale degli Studenti), gli immatricolati sono scesi da 338.482 (nel 2003-2004) a 280.144 (nel 2011-2012), ciò che significa un calo di 58.000 studenti pari al 17% degli immatricolati del 2003, come se in un decennio fosse scomparso un Ateneo grande come la Statale di Milano con tutti i suoi iscritti”.

Scrive il rapporto CUN a p. 10: “il rapporto immatricolati-diciannovenni e immatricolati-diplomati mostra che la percentuale di immatricolati sta decrescendo costantemente dal 51% nel 2007-2008 al 47% nel 2010-2011”. “Questi dati indicano chiaramente un diminuito interesse per l’istruzione universitaria e/o una diminuita capacità di accedervi, le cui cause vanno ricercate in due diverse direzioni: da una parte, nell’andamento negativo del ciclo economico con la conseguente diminuzione delle opportunità occupazionali per i laureati…; dall’altra, nei caratteri che hanno connotato le dinamiche universitarie degli ultimi anni, dalla contrazione delle risorse per il diritto allo studio … alla contrazione del numero dei corsi di studio e anche al crescente ricorso al numero programmato”.

Una accusa forte e chiara, quella del Cun. Fatto sta che la reazione della stampa stupisce. Ieri, infatti, nella home page del corriere.it c’era un articolo preoccupato per gli abbandoni scolastici, “l’emorragia dei professori”, la mancanza di borse di studio. Eppure, se andiamo a guardare gli editoriali pubblicati sul Corriere negli ultimi anni, troviamo tutt’altro. Il 24 ottobre 2010 Francesco Giavazzi scriveva: “che nell’università ci siano troppi professori è un fatto” (un tal fatto che il Cun dice l’opposto). “Va dato atto al ministro Gelmini di aver fatto un importante passo avanti. La legge riconosce che i corsi devono essere ridotti, le università snellite, alcune chiuse”. “Le università italiane sono cresciute troppo”, “non abbiamo bisogno di geni”, dichiarava De Rita, il Presidente del Censis. L’ha scritto pure Sartori la scorsa settimana, tra una battuta sul Prozac e un’altra sull’economia che “tira”: “produciamo dottori inutili”, “abbiamo troppe università scadenti”, occorre “il ritorno alla terra”. Insomma, “quando la Legge di stabilità 2012 con la firma del Ministro Profumo ha tagliato altri 300 milioni all’Università portando la maggior parte degli atenei ormai a rischio di default”, ha scritto De Nicolao, “quello è stato un indubbio successo della propaganda martellante che per anni ha denunciato l’irrilevanza scientifica e l’inutilità sociale dell’università italiana”. Non è un caso se, con coerente linea editoriale, negli ultimi mesi il Corriere ha sostenuto la richiesta di Ichino e Terlizzese di aumentare le tasse universitarie a 7.500 euro, “per incentivare” gli studenti meno abbienti. Come ha detto Oscar Giannino, “cinquantamila universitari in meno vuol dire che i giovani non sono fessi”. Almeno lui è sincero: secondo lui, oggi, i fessi, sono quelli che all’università ci vanno.

Insomma, forse in campagna elettorale è lecito scherzare per un giorno. L’importante è che domani tutti tornino a fare ciò che più gli sta a cuore: lavorare al puro e semplice smantellamento dell’università pubblica. 

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