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In Antimafia le accuse di Mori e De Donno su Mafia e appalti: “Indagini bloccate”. M5s e Pd: “Falsità”

Per quasi due ore a San Macuto, i due ex alti ufficiali hanno accusato gli ex pm di Palermo di aver insabbiato l'indagine su Cosa nostra e la politica, indicata come il movente segreto di via d'Amelio. L'opposizione: "Sconcerto per falsità depistanti"
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Le lettere del Corvo di Palermo, che avrebbero avuto come effetto quello di bloccare le indagini su Leoluca Orlando. Lo stesso ex sindaco che avrebbe fatto pervenire un bigliettino a Paolo Borsellino, per chiedergli di evitare “riferimenti ai contrasti avuti da lui con Giovanni Falcone“, durante l’incontro pubblico del 25 giugno del 1992 alla biblioteca comunale di Palermo. E poi ovviamente la questione dell’indagine su Mafia e appalti, il dossier indicato come il movente dietro all’eliminazione dello stesso Falcone e Paolo Borsellino. È durata quasi due ore l’audizione di Mario Mori e Giuseppe De Donno davanti alla commissione Antimafia. I due ex alti ufficiali del Ros dei carabinieri sono stati ascoltati nell’ambito dell’indagine portata avanti dall’organo presieduto da Chiara Colosimo sulla strage di via d’Amelio. Si tratta solo del primo atto, visto che l’audizione dei due proseguirà più avanti, ma è bastato per provocare la reazione dell’opposizione. Il Pd, infatti, si dice “sconcertato“, mentre il Movimento 5 stelle parla di un’audizione “piena di falsità“. Ma andiamo con ordine.

Due ore di audizione – Da mesi Palazzo San Macuto batte la pista di Mafia e appalti, cioè il dossier di Mori e De Donno che puntava i riflettori su Cosa Nostra, i legami con la politica e la capacità di gestire gli affari con soldi pubblici. Nei processi in cui sono stati coinvolti, i due carabinieri hanno spesso indicato l’interesse di Borsellino per quell’indagine come il movente segreto della strage di via d’Amelio. Una linea seguita anche dall’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli del giudice assassinato, e da sempre condivisa dal centrodestra. Quella di Mori e De Donno, dunque, è stata spesso considerata come la madre di tutte le audizioni tenute dalla commissione Colosimo. Da questo punto di vista si può dire che non ha regalato colpi di scena. Per più di cento minuti i commissari hanno ascoltato la ricostruzione di De Donno, introdotto brevemente dal suo storico capo. I due, tra l’altro, hanno di recente dato alle stampe un libro in cui riportano la loro versione dei fatti sulla gestione di quell’inchiesta. “Ho assunto il comando del gruppo di Palermo il 22 settembre 1986, non avevo mai svolto servizio in Sicilia, provenivo da un incarico dello Stato Maggiore dell’Arma ma mi ero formato su piano operativo e avevo fatto anche parte del nucleo speciale di polizia giudiziaria del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. In quel tipo di reparto si era capito che il contrasto alla criminalità organizzata doveva essere fatto in una strategia generale con linee ben precise di intervento: nulla veniva lasciato al caso”, ha detto Mori, cominciando la sua audizione davanti alla commissione. “Arrivato a Palermo mi trovai di fronte a una situazione dove invece tutti gli organi di polizia giudiziaria vivevano praticamente alla giornata senza avere linee strategiche e operative ben definite: si puntava a un risultato immediato, più facile da ottenere, ma senza nessuna prospettiva”, ha proseguito ancora l’ex generale, spiegando che invece dal suo punto di vista “bisognava colpire nell’essenza Cosa Nostra”. Mori individuò “questa essenza, non tanto nel pizzo che tutto sommato provocava introiti modesti, ma nel condizionamento degli appalti“. Per questo motivo, ha aggiunto, “decisi di costituire un reparto, non previsto dall’ordinamento del mio comando“.

L’autodifesa di De Donno – È da li che parte la storia dell’indagine ed è a quel punto che è intervenuto De Donno. “Il 20 febbraio ’91 io consegnai a Falcone, quale procuratore aggiunto della procura di Palermo, un’annotazione a firma del colonnello Mori datata 16 febbraio 1991 conosciuta poi come Mafia e appalti composta da 877 pagine, 483 allegati e 44 schede relative a persone coinvolte nelle indagini. Il documento costituiva il compendio di tutta l’attività investigativa eseguita su questo settore fino a quel momento”, ha detto quello che all’epoca era un giovane capitano dei carabinieri. De Donno ha subito replicato a una delle tante contestazioni avanzate nei suoi confronti e relativi alla gestione dell’indagine: quella di aver preparato due informative del dossier, una con i nomi dei politici coinvolti e una depurata da questi riferimenti. “Poiché siamo stati più volte accusati di aver omesso nell’informativa del febbraio ’91 tutta la parte politica che era venuta fuori, parecchie persone che ancora sostengono questo dimenticano che nel quadro di queste indagini io avevo consegnato a Falcone, a Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, co-assegnatari dell’indagine mafia e appalti, una serie di annotazioni preliminari” ha sostenuto, riferendosi a quelle “del 2 luglio e 5 agosto 1990, in cui si delineavano i rapporti relativi a responsabilità di personalità politiche nazionali e regionali in merito alle quali richiedevamo la necessità di svolgere più approfonditi accertamenti. Ed è il motivo per cui nell’informativa del 16 febbraio non sono citate le parti politiche. Tengo a dire che, su questo aspetto specifico, che ritenevamo fosse il centro di questa indagine, noi non ricevemmo mai una delega di indagine da parte della procura della Repubblica di Palermo”.

“Le lettere del Corvo bloccarono l’indagine su Orlando” – Prima che fosse completato il dossier su Mafia e appalti, De Donno ha raccontato di aver indagato anche sul comune di Palermo, che venne perquisito nel 1989. “Nella cassaforte di Leoluca Orlando venne rinvenuta una lettera dall’Alto commissario antimafia, il prefetto Riccardo Boccia, da lui vistata e protocollata”, in cui si segnalava che dietro le imprese che gestivano la manutenzione delle strade “vi era il sospetto della presenza di Vito Ciancimino. Interrogato, Orlando non fornì spiegazioni e venne indagato”. L’indagine era coordinata dal pm Alberto Di Pisa, che poco dopo finì sotto inchiesta con l’accusa di essere il Corvo di Palermo, cioè l’anonimo estensore di missive che accusavano Falcone di aver trasformato il pentito Salvatore Contorno in una sorta di killer di Stato. Di Pisa sarà assolto in Appello, ma intanto gli vennero sottratte le indagini, compesa quella su Ciancimino. “In sostanza il caso delle lettere del Corvo determinò la mancata prosecuzione delle indagini sul sindaco Orlando, da allora l’inchiesta che lo riguardava non ha ottenuto alcun sviluppo”, ha sostenuto De Donno. Che sempre a proposito dell’ex sindaco di Palermo, ha riportato un’altra vicenda, già raccontata in commissione dall’ex maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale, uno degli uomini più fidati di Borsellino. Il 25 giugno del 1992, nell’atrio della biblioteca comunale di Casa Professa a Palermo, “Orlando fece pervenire al dottor Borsellino un bigliettino nel quale lo invitava a evitare riferimenti ai contrasti avuti da lui con Falcone”.

L’incontro alla caserma Carini – Durante quell’incontro, il magistrato tiene un intervento molto duro, nel quale dice sostanzialmente di essere un testimone della morte del collega e di voler conferire con l’autorità giudiziaria. Nel pomeriggio aveva incontrato proprio Mori e De Donno, all’interno della caserma Carini. L’oggetto di quel faccia a faccia è stato al centro di vari processi: secondo la procura di Palermo, Borsellino voleva parlare degli incontri avuti da De Donno con Vito Ciancimino. Il carabiniere, però, sostiene che l’argomento dell’incontro era il dossier Mafia e appalti. Lo ha ripetuto anche oggi: “Il dottor Borsellino ne aveva parlato diffusamente con Falcone e individuava nel lavoro del Ros oltre che una possibile causale alla morte del collega anche un nuovo e più efficace strumento investigativo nei confronti di Cosa Nostra”. Va detto che Mori e De Donno non hanno riferito di quest’incontro subito dopo la strage di via d’Amelio, ma soltanto nel 1997, ben cinque anni dopo.

“Insabbiarono le indagini su Mafia e appalti” – Per i due ex alti ufficiali del Ros, però, non c’è dubbio: Borsellino fu ucciso a causa del suo interesse per Mafia e appalti. “Dai verbale di sequestro dei materiali acquisiti nel suo ufficio dopo la sua morte risulta che la maggior parte dei documenti rinvenuti riguardavano indagini sugli appalti e personaggi che si ritrovano nella nostra annotazione del 16 febbraio ’91. In sostanza emergeva un febbrile lavoro di ricostruzione, sintesi e collegamento sulla problematica del condizionamento degli appalti pubblici”, ha aggiunto ancora De Donno. Che poi ha accusato i magistrati all’epoca in servizio alla procura di Palermo di aver insabbiato le indagini, subito dopo aver ordinato appena cinque arresti. “Il 9 luglio, invece di depositare il testo della relazione del Ros con i relativi omissis, la procura di Palermo consegna ai difensori degli imputati l’intero documento. Dopo solo cinque giorni, tutta Palermo – compresa Cosa Nostra – sapeva dove eravamo giunti, da dove eravamo partiti ma soprattutto dove potevamo andare”. Quindi “il 12 luglio 1991 la procura di Palermo con il procuratore Piero Giammanco smembra l’indagine Mafia e appalti e invia alle procura di Agrigento, Caltanissetta, Trapani e Marsala stralci del rapporto. L’iniziativa oltre a frammentare l’inchiesta, ne rifiuta l’impostazione unitaria e quindi sottende all’evidente intenzione di chiudere il procedimento“. Per dare forza a questa sua ricostruzione, De Donno riporta un passaggio della testimonianza dell’ex pm Antonio Ingroia al processo sul depistaggio di via d’Amelio: “Ha riferito che, a proposito del frazionamento dell’annotazione del Ros, Borsellino riteneva che l’iniziativa della procura di Palermo forse propedeutica al suo insabbiamento“.

Le accuse ai pm di Palermo – I carabinieri hanno sempre considerato la loro indagine sugli appalti come il prequel di Tangentopoli. “L’inchiesta – ha sostenuto De Donno anche oggi – si sarebbe saldata anche tecnicamente a quella su Mani pulite. Paolo Borsellino non ebbe il tempo di farlo, altri a Palermo pur avendone tutta la possibilità non apprezzarono le potenzialità di questa indagine e si perse un’occasione”. Ma non solo. Secondo De Donno, infatti, i pm di Palermo sarebbero colpevoli anche di altro. “Il 19 luglio del 1992 subito dopo il dottor Napoli e i colleghi di turno Luigi Patronaggio e Salvatore Pilato, sopraggiunti a distanza di un’ora sul luogo dell’esplosione, arrivarono in via d’Amelio il procuratore Giammanco, Guido Lo Forte, Giuseppe Ayala e Giacchino Natoli. Di certo non era presente il dottor Arnaldo La Barbera, dirigente della Mobile, perché fuori sede e non a Palermo”, ha sostenuto. “Sono stati quindi i requirenti palermitani giunti nell’immediatezza che hanno avuto la possibilità di sovrintendere e dirigere le operazioni di polizia giudiziaria nella fase preliminare dell’acquisizione degli elementi di prova rinvenibili sul luogo della strage. Pertanto ogni atto immediatamente successivo, fino al sopraggiungere in serata dei colleghi titolari delle indagini, è da attribuire alle loro decisioni”. Che intende dire De Donno? “Se ne deve quindi concludere che pur ammettendo l’indubbia difficoltà psicologica dell’agire in quei drammatici momenti, le loro attività se non altro sono state connotate da improvvisazione e sciatteria così da produrre gravi danni tutt’ora riscontrabili nella storia processuale dell’inchiesta”. Insomma: dopo aver cercato di insabbiare l’inchiesta che stava tanto a cuore a Borsellino e Falcone, i pm di Palermo avrebbero anche avuto un ruolo nelle ritardare l’accertamente della verità in via d’Amelio.

M5s: “Falsità ed errori depistanti” – Nonostante non sia stata ancora completata, l’audizione di De Donno ha provocato la reazione dei due principali partiti di opposizione. A cominciare dal Movimento 5 stelle, che ha eletto in Senato Roberto Scarpinato, pm di Palermo all’epoca dei fatti. “La ricostruzione della vicenda mafia-appalti effettuata oggi in commissione Antimafia da De Donno è stata infarcita da un serie impressionante di falsità e di errori depistanti dimostrabili documentalmente”, sostiene il senatore del M5s Luigi Nave. Che poi contesta punto su punto alcune delle affermazioni dell’ex carabiniere: “De Donno ha asserito che la Procura di Palermo avrebbe colpevolmente sottovalutato la posizione di Filippo Salomone, personaggio centrale delle indagini benché segnalato nell’informativa del Ros del febbraio 1991 come soggetto di interesse investigativo. Chiunque può verificare come nelle schede finali della informativa con le quali il Ros segnalava 45 soggetti di interesse investigativo, mancasse completamente il nome di Filippo Salomone, tanto che Antonio Di Pietro ha testualmente dichiarato alla commissione Antimafia che il Ros su Salomone aveva completamente cannato. Nonostante il Ros non avesse attenzionato il Salomone nella informativa del febbraio 1991, questi fu arrestato dalla Procura di Palermo nel prosieguo delle indagini una prima volta nel maggio del 1993 ed una seconda volta nel 1997“. Un altro punto è il riferimento di De Donno a “una frase del diario di Falcone relativa ad una indagine su un finanziamento della Regione Siciliana“, che il carabiniere riferisce alle indagini su mafia-appalti. “Sebbene – dice Nave – egli sia perfettamente a conoscenza che la dottoressa Sabatino, titolare di quella indagine, abbia dichiarato al Csm che si trattava di una vicenda completamente estranea e diversa da quelle oggetto dell’indagine mafia-appalti. Inoltre, per corroborare la sua ricostruzione, ha citato un provvedimento di archiviazione del gip di Caltanissetta Loforti omettendo di citare le parti dello stesso provvedimento nelle quali lo stesso gip ha gravemente stigmatizzato comportamenti omissivi di Mori e De Donno, ha accertato la falsità di alcune circostanze riferite dal De Donno, e, di contro, ha ritenuto accertato che Borsellino era stato portato a conoscenza delle indagini su mafia-appalti”. Per il senatore dei 5 stelle “De Donno ha prospettato una ricostruzione secondo cui l’inchiesta si sarebbe conclusa con arresti di pochi personaggi minori, pur sapendo bene ed essendo documentalmente provato che, invece, l’inchiesta condusse all’arresto e al processo di centinaia di personaggi, tra i quali esponenti di vertice di Cosa Nostra come Riina, Antonio Buscemi, Brusca, esponenti di grandissimo spessore del mondo imprenditoriale tra i quali Rizzani De Eccher, Lodigiani, tutto il management del gruppo Ferruzzi, di numerosi politici, alcuni dei quali arrestati, di professionisti e di pubblici amministratori. È grave e pericoloso che nel lavoro di ricerca della verità nella commissione Antimafia vengano fornite informazioni così gravemente false e smentite dai documenti accessibili da chiunque voglia consultarli. È sconcertante la faziosità di esponenti della maggioranza che anziché lavorare per una ricostruzione seria da consegnare al Paese intero, dimostrano di avere una verità preconfezionata in tasca da imporre ad ogni costo”.

Pd: “Sconcerto e perplessità” – I parlamentari del Pd a San Macuto, invece, sottolineano l’impressione “di grande perplessità e, per certi aspetti, di sconcerto” per le dichiarazioni dei due carabinieri. “Siamo rimasti colpiti dal fatto che nelle circa due ore di relazioni, gran parte del tempo sia stato dedicato ad autodifese dei propri comportamenti. E a lanciare accuse, formulare giudizi opachi, scenari di delegittimazione nei confronti di alcuni magistrati e di esponenti istituzionali diversi dei quali da allora e da sempre sono stati protagonisti del contrasto alle mafie, al terrorismo rischiando la vita, vivendo sotto scorta – continuano – Al tempo stesso è apparso davvero poco credibile il fatto che esponenti come i due auditi, in primis il generale Mori, abbiano insistito per circoscrivere gli assassinii di Falcone e Borsellino e degli agenti delle scorte al solo scenario Mafia e appalti – certamente rilevante – ignorando totalmente il quadro di cambiamenti politici e le scelte della mafia, connesse a precise strategie di controllo del sistema politico-istituzionale”. Secondo i dem si tratta di “strategie molto probabilmente legate alle stragi siciliane ma anche a quelle di via dei Georgofili, agli attentati romani del Velabro, San Giovanni e Via Fauro, a quello di via Palestro a Milano, decise per cambiare il corso politico del Paese. Davvero molto singolare”.

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