Nelle indagini su Mafia e appalti “si era venuta a creare una contrapposizione tra il metodo di lavoro dei carabinieri e quello della procura di Palermo“. Che tipo di contrapposizione? “I carabinieri ritenevano di avere riversato un’enorme massa di intercettazioni e che lì vi fosse tutto. Poi era compito della procura trarre le conseguenze. In realtà in quella riunione del 14 luglio 1992 appresi che queste intercettazioni avevano grosse difficoltà a essere lette e a essere interpretate”. Parola di Luigi Patronaggio, procuratore generale di Cagliari e giovane pm in servizio a Palermo all’epoca delle stragi. “Ero un giovane magistrato e mi trovavo lì da poco. Paolo Borsellino, nei giorni che vanno dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, era agitatissimo, era in preda a un’ansia di verità che lo attanagliava”, ha detto il magistrato, che è stato ascoltato oggi dalla commissione Antimafia presiduta da Chiara Colosimo. Ed è tornato indietro nel tempo, a quella riunione in procura il 14 luglio del 1992: il giorno prima era stata richiesta l’archiviazione per alcuni degli indagati di Mafia e appalti, cioè il dossier del Ros sui rapporti tra Cosa nostra, l’imprenditoria e la politica. Cinque giorni dope, invece sarebbe saltata in aria via d’Amelio. La vicenda è nota: secondo l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e avvocato dei figli del giudice, l’archiviazione di quella parte di procedimento è il movente segreto dietro alla strage di via d’Amelio.

L’ultima riunione di Borsellino in procura – “Quella riunione fu convocata in modo un pò strano perché da un lato si diceva nell’ordine del giorno: ‘Saluti in vista delle ferie‘ dall’altro nell’ordine del giorno c’erano argomenti, ognuno dei quali meritava un approfondimento notevole, come mafia-appalti, ricerca dei latitanti, estorsioni”, ha spiegato Patronaggio. Che ha ricordato come Borsellino fosse molto interessato all’indagine: “Quando si diede la parola all’istruttore, il dottor Lo Forte (uno dei titolari dell’indagine che chiese l’archiviazione il 13 luglio del ’92 ndr), per riferire su mafia-appalti Borsellino faceva domande da cui si capiva che voleva sapere qualcosa in più. L’istruttore si soffermò su materie tecniche mentre Borsellino, che sicuramente era stato compulsato dai carabinieri, fece domande da cui si intuiva una aspettativa, voleva sapere qualcosa in più su imprenditori e il ruolo dei politici. Tenga conto che Borsellino una copia del rapporto l’aveva avuta”, ha continuato il magistrato. Incalzato dalle domande dei parlamentari ha poi sottolineato: “Io sono venuto a conoscenza della richiesta di archiviazione di Mafia e appalti durante quella riunione del 14 luglio”. Dunque durante qull’incontro, al quale partecipò Borsellino, si parlò esplicitamente della richiesta di archiviazione firmata appena il giorno prima: “Non ricordo che Borsellino disse di attendere prima di archiviare e non ricordo che disse di rinviare la discussione sull’indagine, mi sentirei di escluderlo. Ma comunque la decisione di chiedere l’archiviazione era stata già presa. Se vogliamo dire che Borsellino tentò di fermare l’archiviazione devo dire di no, non andò così”, ha continuato Patronaggio. Un dettaglio non secondario, visto che il magistrato sarà ucciso soltanto cinque giorni dopo. E infatti la presidente Colosimo ha spiegato, alla fine dell’audizione, che dalle parole di Patronaggio “sono emersi dei racconti diversi da quelli arrivati fino a oggi, almeno riguardo alla notizia di archiviazione su Mafia e appalti e questo darà motivo di altro lavoro alla commissione perché né i testimoni né le persone audite fino a questo momento hanno fatto esplicito riferimento alla richiesta di archiviazione durante quella riunione”.

“Non era un rapporto ma un’annotazione” – A proposito dell’indagine del Ros Patronaggio ha aggiunto: “Il rapporto Mafia e appalti gettava un nuovo punto di vista investigativo perché riusciva a focalizzare bene il momento di acquisizione del meccanismo degli appalti da parte di Cosa nostra. Però devo pure dire, con la massima onestà intellettuale, che il rapporto nella sua versione del 20 febbraio 1991 non è un rapporto ma è un’annotazione. Non ha una rubricazione. Siamo a metà tra vecchio e nuovo codice: in quell’annotazione non si indicano gli indagati con ipotesi di reato. Aveva degli elenchi e delle schede e una quantità notevole di intercettazioni. Lì era giusta l’osservazione fatta dal dottore Lo Forte sul problema di utilizzabilità di queste intercettazioni”. La gestione di quelle intercettazioni è una delle anomalie dell’indagine che creò una spaccatura tra carabinieri e procura, come è emerso durante i lavori precedenti della commissione e come era stato già chiarito al Parlamento dall’allora procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, nel 1999. “Nelle 900 pagine depositate dal Ros nel febbraio ’91 non si faceva mai riferimento a personaggi importanti come Mannino, Salvo Lima, Rosario Nicolosi, De Michelis”, ha spiegato, nelle scorse settimane, Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo che oggi è senatore del M5s. Una ricostruzione condivisa da Patronaggio: “Il nome di Lima esce in tutta la sua gravità con un’intercettazione del 1990 che però viene riversata nel settembre del 1992″, ha detto il pg. Sul punto la presidente Colosimo ha chiesto la magistrato se per caso la mancanza di quell’intercettazione nel dossier depositato nel febbraio de ’91 non fosse dovuta semplicemente al fatto che le intercettazioni vennero riascoltate dal Ros nel maggio del ’92, come scrive la gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti archiviando il procedimento sulla gestione dell’inchiesta su Mafia e appalti nel 2000. Patronaggio, però, ha confermato che le intercettazioni di Lima vengono “a conoscenza del gruppo di lavoro non prima del settembre ’92”.

Anomalie sull’indagine – Dopo pochi mesi a Palermo arriverà Caselli e le indagini su mafia e colletti bianchi subiranno un’accelerazione: “La procura di Caselli cambiò registro – ha ricordato Patronaggio – Ma anche le indagini della vecchia procura non è che fossero ferme e bloccate, ricordo il procedimento su Vito Ciancimino. Certo non giovò ai rapporti tra il Ros e la procura la gestione del collaboratore Giuseppe Li Pera (uno dei personaggi principali dell’inchiesta Mafia e appalti ndr): era stato arrestato dalla procura di Palermo, si rifiutò di rendere dichiarazioni alla stessa procura e a un certo punto diventa confidente del Ros. Questo modo di procedere non è esattamente ortodosso e altrettanto non ortodossa è stata la mossa di far sentire Li Pera da un magistrato della procura di Catania, Felice Lima. Quindi con Palermo Li Pera non parlava, faceva da confidente ai carabinieri e però è stato sentito come testimone a Catania”. Di anomalie Patronaggio ha parlato anche a proposito della collaborazione di Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra, che si pente nel giugno ’97. “Nonostante avesse avuto interlocuzione con l’Arma, Siino collabora attraverso la Guardia di Finanza. Di questo il Ros si dispiacerà molto. Quando si parla di collaboratori di giustizia ci sono delle regole. Quando si parla di rapporti confidenziali noi queste regole non le conosciamo. Dunque non posso riferire dei rapporti tra Li Pera e De Donno e quelli di Siino con esponenti dei carabinieri”, ha continuato Patronaggio. Il magistrato ha poi sottolineato: “Nonostante queste criticità il rapporto del Ros su mafia e appalti non si è esaurito. Già nel febbraio 1992 sulla scorta del dossier del Ros vengono arrestati due personaggi come Rosario Cascio e Vito Buscemi, fratello di Antonino Buscemi, capomafia di Boccadifalco, che un filo lungo porta al controllo della Calcestruzzi collegata al gruppo di Ravenna”. Cioè il gruppo Ferruzzi di Raul Gardini, al centro delle indagini su Tangentopoli, morto suicida nella sua casa di Palazzo Belgioioso a Milano nel luglio del 1993.

“Documento contro Giammanco atto coraggioso” – Patronaggio ha anche ricordato i momenti successivi alla strage di via d’Amelio, quando un documento sottoscritto da alcuni pubblici ministeri costrinse il Csm a intervenire su Pietro Giammanco, allora procuratore capo di Palermo. “Giammanco non era all’altezza di quel periodo drammatico che stavano vivendo la Sicilia e l’Italia. C’erano vecchie incomprensioni tra Giammanco e Falcone e Borsellino – ha aggiunto il pg del capoluogo sardo – Sapevamo che Giammanco faceva fare anticamera a questi due illustri magistrati. La procura era gestita da Giammanco in modo burocratico e verticista”. Dopo la morte di Borsellino, dunque, un pezzo di procura si ribella: “Il documento che sfiduciava Giammanco fu preso su iniziativa di Scarpinato a cui si aggiunsero altri colleghi tranne qualcuno che lo riteneva un documento forse troppo avanzato. Era una mossa molto azzardata perché i tempi erano diversi da quelli di oggi, c’erano diverse sensibilità politiche ed era un documento molto coraggioso“.

“Il covo di Riina? La verità processuale parla di un errore” – Durante l’audizione Patronaggio è tornato anche ai momenti successivi all’arresto di Totò Riina, quando da magistrato di turno interviene per andare subito a perquisire il covo. “Non mi faccio trascinare dalla suggestione, la verità processuale parla di un errore, di un problema di carattere tecnico”, ha detto riferendosi ai procedimenti sul mancato blitz nel residence dove abitava il capo dei capi con la famiglia. “I carabinieri brillantemente hanno arrestato Riina in un residence in via Bernini. Hanno portato Riina in caserma, io ero di turno e sono intervenuto subito insieme al procuratore Caselli che si era insediato in quei giorni: ricordo Riina in piedi sotto la foto di Carlo Alberto dalla Chiesa”, ha continuato il pg di Cagliari. “Esperite le formalità, ci fu un vertice nella caserma dei carabinieri, un summit ai massimi livelli. Il generale Mori su indicazione del capitano De Caprio, propose una modalità operativa che per noi era insolita ma che a quanto pare aveva dato i frutti nella lotta al terrorismo, cioè non fare irruzione nel covo ma fare un servizio di osservazione per vedere quello che succedeva”, ha proseguito Patronaggio. “Parliamo di due ufficiali di grandissima esperienza” ha sottolineato l’ex pm di Palermo, aggiungendo che le loro indicazioni non poterono “che trovare accoglimento ancorché la prassi seguita dalla procura di Palermo in questi casi era fare irruzione ed entrare. Ci veniva proposto un altro modo di operare, legittimo, e c’erano rischi oggettivamente, come la fuga di notizie o che potesse andare male qualcosa. Ma accettammo questa impostazione da parte di due ufficiali di altissima qualità”. Poi, però, quando Caselli chiese informazioni ai carabinieri ed emersero le “criticità” nacque una “contrapposizione tra il Ros e la procura di Palermo nella persona di Caselli che, fino lì, aveva avuto un rapporto ottimo con i carabinieri“, ha continuato sempre l’attuale pg di Cagliari. Fu detto “che non era stato possibile tenere sotto controllo il covo, gli uomini della squadra di De Caprio dovevano essere avvicendati e gli stessi filmati non erano stati portati a termine – ricorda – Si sono fatti processi su questa cosa e gli ufficiali dei carabinieri sono sempre stati assolti con formula piena. Si è parlato di un disguido, di una defaillance operativa: questa è la verità processuale acclarata con sentenze passate in giudicato”.

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