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Harvard si oppone a Trump e lui si vendica: così si attaccano gli atenei per annientare la solidarietà

Giustizia sociale, uguaglianza e inclusione devono diventare parole proibite, per impedire alla radice ogni pensiero e azione finalizzati all’emancipazione sociale
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Harvard, l’università più prestigiosa d’America, ha detto no ai diktat da stato di polizia imposti dall’amministrazione Trump: no allo spionaggio accademico, no ai condizionamenti sulle assunzioni e sugli insegnamenti, no al controllo politico su studenti e docenti. Queste erano, in sostanza, le richieste avanzate dal governo con una lettera inviata l’11 aprile scorso, accompagnate dalla minaccia di tagliare i fondi per la ricerca (9 miliardi), in caso di mancata obbedienza.

Il presidente di Harvard, Alan Garber, si è rivolto all’intera comunità accademica con un comunicato esplosivo, dichiarando che l’università “non rinuncerà alla propria indipendenza né ai propri diritti costituzionali”, e aggiungendo che “nessun governo – indipendentemente dal partito al potere – dovrebbe decidere cosa le università private possano insegnare, chi possano iscrivere o assumere, e quali studi e ricerche portare avanti”.

Una posizione destinata a diventare l’incubo dei MAGA. Si tratta infatti della prima risposta chiara e apertamente oppositiva nei confronti delle politiche liberticide del governo Trump. Fino a questo momento, molte università e centri di ricerca avevano scelto di evitare lo scontro diretto sul piano giudiziario e mediatico, illudendosi di poter placare l’esecutivo con qualche gesto simbolico di sottomissione. Hanno erroneamente creduto che il Trump del secondo mandato mantenesse le stesse ambiguità e contraddizioni del primo, quando, da un lato, si vantava di aver frequentato una delle più importanti università della Ivy League – “Ho frequentato la Wharton School of Business, sono una persona davvero intelligente”, diceva – e dall’altro attaccava l’élite formata in quelle stesse università, accusandola di essere “globalista” e “woke”.

Questa volta, però, la situazione è diversa. Lo spazio per le ambiguità si è drasticamente ridotto. L’attacco alle università, pubbliche e private, così come all’intero sistema scolastico, è diventato un perno della strategia politica trumpiana. In primo luogo perché Trump e i suoi fedelissimi sono consapevoli del fatto che, negli ultimi anni, i professionisti formati nelle università più prestigiose hanno abbandonato il campo repubblicano, preferendo in massa le politiche “moderate” di Obama e dei Clinton. Agli occhi dei MAGA, questo ceto istruito è diventato particolarmente odioso, in quanto “traditore” dei valori tradizionali, un tempo propri anche della upper class americana. Colpire i luoghi della loro formazione ha quindi anche il sapore di una “punizione”.

Ma non si tratta soltanto di una lotta simbolica contro i professionisti e gli intellettuali progressisti. L’anti-intellettualismo militante dell’attuale governo Trump non è una questione di mera vendetta: è parte di una più ampia strategia governativa che punta a trasformare radicalmente il tessuto sociale e culturale del Paese. Una strategia che, attraverso l’attacco sistematico alle strutture pubbliche e private dedicate alle politiche sulla diversità, sull’equità e sull’inclusione (DEI), mira a cancellare il sentimento stesso di empatia umana.

Elon Musk – a capo del Doge, il più potente dipartimento dell’attuale amministrazione – è ossessionato dalla lotta al concetto di empatia. Scrive continuamente sul suo profilo X che esisterebbero due tipi di empatia, una positiva e una negativa o “suicida” (“suicidal empathy”): la prima sarebbe quella che le persone di successo possono provare verso i più poveri; la seconda, da condannare, sarebbe quella orizzontale, tra poveri, tra immigrati, che – a suo dire – porterebbe al suicidio della civiltà.

Di conseguenza, secondo Musk & co., la solidarietà tra lavoratori, poveri e immigrati è da eliminare, mentre va incoraggiata l’elemosina dei ricchi verso i poveri. Per realizzare questo progetto, la cosiddetta “ideologia woke” – ossia la promozione della giustizia e dell’inclusione sociale – rappresenta un evidente ostacolo, anche sul piano puramente retorico. Giustizia sociale, uguaglianza e inclusione devono così diventare parole proibite, per impedire alla radice ogni pensiero e azione finalizzati all’emancipazione sociale.

L’attacco alle università, alle loro politiche di inclusione e, in particolare, agli insegnamenti che mettono al centro i temi della giustizia sociale ha dunque obiettivi ben più ambiziosi degli arresti e delle deportazioni degli studenti che manifestano la loro solidarietà con i palestinesi massacrati: si vuole annientare la possibilità di ogni sentimento di empatia tra gli oppressi.

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