“Qualsiasi soluzione rapida sull’Ucraina è un affare sporco che abbiamo già visto in passato”. È toccato all’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Kaja Kallas, interrompere il lungo silenzio seguito alle telefonate con le quali Donald Trump ha dato di fatto inizio alle trattative di pace, seppur a distanza, tra Russia e Ucraina. Prima il colloquio con Vladimir Putin, poi quello con Volodymyr Zelensky. A Bruxelles, invece, non è squillato alcun telefono: l’Europa, almeno per il momento, viene lasciata a guardare. Troppo “debole e inutile” è la motivazione sprezzante data dal falco putiniano Dmitrij Medvedev. Questa situazione in Europa fa paura per diversi motivi: perché sull’Ucraina sono state fatte tante promesse, non solo a Kiev; perché il grande alleato americano sul quale le istituzioni avevano basato la loro strategia di politica estera non è più lo stesso dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca; perché, forse in maniera miope, i vertici Ue hanno basato il prossimo mandato della Commissione von der Leyen sullo sviluppo del comparto della Difesa che, senza un esercito proprio e una guerra da combattere, ora rischia di essere fatto a pezzi. Proprio come la credibilità europea.
Se non contestualizzate, le parole della capa della diplomazia Ue sono difficili da interpretare e, soprattutto, motivare. “Semplicemente non funzionerà – ha proseguito – Non fermerà le uccisioni, la guerra continuerà. Se facciamo un paragone, possiamo fare un parallelo con il 1938 (il riferimento è alla Conferenza di Monaco e alla politica di appeasement degli anglo-francesi che portò alla cessione di territori della Cecoslovacchia ma non frenò comunque le mire espansionistiche di Adolf Hitler, ndr). Non è una buona tattica di negoziazione se si dà via tutto prima ancora che le discussioni siano iniziate. È appeasement e non funziona”. Il punto è che di concessioni, per il momento, non ne sono state fatte, almeno pubblicamente. Ma lo stesso Zelensky ha già affermato che “non riusciremo a riprendere Crimea e Donbass“. Dietro ai timori di Bruxelles per una pace lampo, infatti, ci sono soprattutto altri fattori. E sono di carattere politico ed economico.
A rischio il programma von der Leyen
Il primo riguarda il programma delle iniziative messo nero su bianco dalla presidente per il nuovo mandato. Formalizzato lo smantellamento del Green Deal, colonna portante dei suoi primi cinque anni al Berlaymont, il secondo ‘piano quinquennale’ della politica tedesca si è spostato su due binari paralleli: competitività e sviluppo del settore della Difesa. Ed è soprattutto il secondo quello sul quale sono state spese le dichiarazioni più nette, fatte le promesse più roboanti e anche sollevate le preoccupazioni più grandi.
Anche in base a esso è stata creata anche la nuova squadra dei commissari. Non è un caso che von der Leyen abbia scelto di mettere agli Esteri l’estone Kaja Kallas, figlia e nipote di due donne deportate in Siberia dall’Unione Sovietica e politica inserita nella lista dei ricercati da Mosca, e alla Difesa il lituano Andrius Kubilius. Due rappresentanti di Paesi Baltici messi a ricoprire incarichi fondamentali nel rapporto con la Federazione dimostrano quale voleva essere l’approccio di Bruxelles nei confronti della Russia.
Così, negli ultimi tre anni di guerra le prese di posizione della Commissione Ue hanno sempre guardato più allo scontro militare, seppur indiretto, che agli spiragli diplomatici. Si è sempre invocata una “pace giusta“, senza però tratteggiarne le forme. È stata esclusa la cessione di qualsiasi territorio, compresa la Crimea, equiparandola a una “resa”. Si è ribadita più volte la disponibilità a sostenere l’Ucraina “fino alla sua vittoria“. Una possibilità alla quale, come detto, non crede più nemmeno Zelensky che, non a caso, ha accolto positivamente la recente apertura ai colloqui, consapevole che la guerra da combattere, adesso, si è spostata dalle trincee ai tavoli diplomatici. Ma se una pace dovesse arrivare in tempi brevi, che ne sarebbe delle promesse, delle preoccupazioni e degli sforzi richiesti ai cittadini europei per sostenere la guerra contro la Russia?
Dove finiscono i miliardi per la Difesa?
A quelle politiche si mischiano motivazioni economiche. Se c’è un settore sul quale i vertici delle istituzioni brussellesi ritengono necessario investire, quello è la Difesa. Negli ultimi tre anni le idee circolate sono state diverse e a volte anche in contrasto tra loro. C’è stata l’ambizione di creare un esercito unico europeo, ricacciata presto indietro dalla volontà americana di garantire la supremazia della Nato nel campo della Difesa comune. È proseguita, seppur senza troppe fanfare, l’idea di sviluppare comunque una maggior autonomia in ambito militare. Si è poi arrivati a ipotizzare l’emissione di Eurobond per la Difesa, uno sforzo compiuto nemmeno per il Next Generation Eu post-Covid, e a chiedere alla popolazione europea, nelle scorse settimane, di prepararsi anche a possibili tagli alla sanità, all’istruzione e al welfare in generale per finanziare lo sviluppo e la produzione nel settore della Difesa, ben oltre la soglia del 2% del Pil prevista dagli accordi Nato. Il tutto, spiegavano da Bruxelles, perché la sicurezza dell’Ucraina è anche la sicurezza dell’Europa. Ma se la guerra finisse che ne sarebbe di questo gigantesco piano d’investimento? Come potrebbe l’Unione giustificarlo agli occhi dei propri cittadini?
Ripercussioni sui Paesi Ue
Tutte queste promesse tradite e dichiarazioni smentite in meno di un mese, da quando Trump è tornato alla Casa Bianca, rischiano di creare un terremoto politico non solo a Bruxelles, ma anche nei Paesi membri. L’estrema destra sta già provando a sfruttare queste difficoltà, come testimoniano anche le parole di Viktor Orban dopo le proteste di Francia, Germania e Spagna per l’esclusione dai colloqui: “Questa dichiarazione è una triste testimonianza della cattiva leadership brussellese. Mentre Trump e Putin negoziano sulla pace, i funzionari dell’Ue rilasciano dichiarazioni prive di valore. Non si può chiedere un posto al tavolo dei negoziati. Bisogna guadagnarselo”. Tra meno di dieci giorni, poi, ci saranno le elezioni in Germania che stanno tenendo tutta l’Europa in apprensione per l’ascesa degli ultranazionalisti di Alternative für Deutschland che potrebbero guadagnare altri consensi da un accordo sfavorevole per l’Ue.
L’arma in mano a Bruxelles
Così, l’unica arma in mano a Bruxelles rimangono le garanzie di sicurezza per l’Ucraina. Zelensky ha più volte ripetuto che non verrà siglato alcun accordo senza la certezza di uno scudo contro le incursioni russe, ma per Putin e Trump l’entrata dell’Ucraina della Nato non sembra essere nemmeno un’ipotesi percorribile. Gli Stati Uniti non vedono l’ora di disimpegnarsi militarmente dall’est Europa per concentrare i propri sforzi sull’Indo-Pacifico, mentre l’Ue ha tutto l’interesse a garantire la sicurezza del Paese di Volodymyr Zelensky, anche alla luce di una possibile adesione. Inoltre, è stato proprio il tycoon a precisare più volte che la sicurezza dell’Ucraina è un impegno che dovrà rimanere sulle spalle di Bruxelles. Così, l’Europa potrà e dovrà usare questo fattore per imporre la propria presenza al tavolo dei negoziati e riuscire a strappare condizioni di pace favorevoli anche per se stessa.