Cinema

Oscar 2024, Garrone sconfitto? I complotti non c’entrano. Il cinema italiano paga la distanza americana dai temi (e i pregiudizi sul Paese)

Il punto di fondo, qui, è che banalmente il macrotema della migrazione (per altri “invasione”) nel Mediterraneo di barconi colmi di profughi provenienti da guerre e, come spiega bene il film di Garrone, soprattutto da una situazione non di indigenza ma di un più prosaico sogno di vita migliore, non è un tema così sentito, impellente a livello socio-culturale tra i membri votanti dell’Academy

di Davide Turrini

Parafrasando Sergio Leone: quando un uomo che fa un film sui migranti incontra un uomo che fa un film sull’Olocausto, l’uomo che fa un film sui migranti perde. Ma non è il caso di fare allusioni a complotti oscuri dietro la vittoria de La zona di interesse di Jonathan Glazer nella categoria del miglior film straniero agli Oscar 2024, lasciando a bocca asciutta Io Capitano di Matteo Garrone. Massimo Ceccherini c’è cascato in maniera sconveniente e plateale. Sabrina Ferilli l’ha toccata più lieve ma sibillina (“Se dovesse vincere l’Oscar La zona di interesse so perché vincerebbe, non certo perché è un film migliore di Io Capitano”). Eppure la soluzione più logica allo strappo anti-italiano dell’Academy sta tutto in un paio di considerazioni socio-culturali meno allusive verso una nuance di antisemitismo che sappiamo non appartenere né al folletto toscano che ha co-scritto peraltro proprio un film impegnato come Io Capitano, né a una donna progressista come la co-protagonista proprio di La grande bellezza, ultimo titolo italiano a vincere un Oscar dieci anni fa. “Se dovesse vincere l’Oscar, La zona d’interesse, so perché vincerebbe, non certo perché è un film migliore di Io capitano”, le parole dell’attrice sui social.

Premesso che il tifo per la rappresentanza artistica del proprio Paese, in mezzo ad un globalismo spesso vuoto e demagogico, non può far che piacere, non è che La zona d’interesse vince l’Oscar perché un gruppo di signori col naso adunco si riunisce in una sinagoga e reputa intoccabile un film che tratta in modo sottilmente brutale l’Olocausto. Il punto di fondo, qui, è che banalmente il macrotema della migrazione (per altri “invasione”) nel Mediterraneo di barconi colmi di profughi provenienti da guerre e, come spiega bene il film di Garrone, soprattutto da una situazione non di indigenza ma di un più prosaico sogno di vita migliore, non è un tema così sentito, impellente a livello socio-culturale tra i membri votanti dell’Academy. Per escludere ogni traccia di complotto, insomma, basta guardare cosa arriva in cinquina e vince tra i migliori film stranieri dalla notte dei tempi.

Così a volo d’uccello negli ultimi vent’anni per gli Oscar alle opere “esotiche” Hollywood è colpita da temi etici individuali come il fine vita (Invasioni barbariche, Amour, Mare dentro); ha particolare attenzione per i diritti civili in Iran (due film di Ashgar Farhadi premiati in cinque anni) e la poetica a perdere del cinema giapponese (Departures, Drive my car); volge il suo sguardo alle guerre (Niente di nuovo sul fronte occidentale, No man’s land) e ovviamente premia i racconti sull’Olocausto. Se si va a recuperare il trionfo benignesco del 1998 con La vita è bella in 25 anni troviamo altri quattro film premiati con l’Oscar che entrano con forza nel macrotema, e pure fisicamente nei campi di sterminio, dell’antisemitismo come Il falsario, Ida, Il figlio di Saul e La zona di interesse. Che nella cultura media di chi investe e lavora nel cinema statunitense il filo che lega anche individualmente qualcuno con l’Olocausto sia profondo e antico non ci piove. Per questo l’attenzione nel giudicare e premiare chi torna su quel punto dolente è più alta e sensibile.

Inevitabile, al contrario, che la questione migratoria europea, e ancora di più mediterranea, nonostante certe sparate da stati di confine degli Usa, sia qualcosa di meno urgente, rintracciabile, percepibile in chi giudica. In una società comunque nata dall’afflusso di migranti puritani inglesi e poi via via costruita, anche violentemente (vedi l’annientamento dei nativi in Killers of the flower moon di Scorsese o la questione afroamericana) su fusioni di culture differenti, il dramma dei barconi non ha quella forza politica per un premio di cinema che si potrebbe ottenere anche solo a un festival spagnolo, greco e italiano (come successo all’ultima Venezia). Il trucco al momento sta lì. E semmai andrebbe chiesto ai cineasti di provare a capire come quella forma di banalità del male dell’Olocausto, o come abbiamo sottolineato noi nel recensire il film di Glazer nella cieca forma di obbedienza agli ordini superiori che si reitera ben oltre la forma concreta del nazismo, si sia trasformata e ricomposta su nuove sanguinarie conflittualità. Ecco, se si provasse paradossalmente a uscire dalla comfort zone di Auschwitz per capire e aggiornare il sadismo dei nuovi totalitarismi, ci sarebbe un mare di contraddizioni che attende di essere illustrato. Infine su Garrone e Io Capitano hanno probabilmente influito un dato concreto come una ritardata e capillare distribuzione nelle sale statunitensi in tempo per le votazioni dell’Academy, come un altro stereotipo, questo sì fastidioso: che un film italiano sia sempre quell’opera tutta sole, mare, nostalgia, e un filo di fancazzismo allineato su paesaggi da cartolina (Nuovo cinema paradiso, Mediterraneo, ma anche La grande bellezza) che un membro dell’industria hollywoodiana riconosce come naturale bias cognitivo.

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