La pandemia ci aveva illuso. Dopo una fase, condivisa con il Mondo intero, di incertezze e oscillazioni, l’Unione europea aveva risposto in modo sostanzialmente consono alle indicazioni della scienza ed aveva pure avuto il colpo di reni di mettere per la prima volta in comune una fetta di debito, per consentire all’economia di rimettersi in moto dopo il brusco stop, specie nei Paesi più fragili – Italia compresa -.

Poi è venuta la guerra in Ucraina. E l’Unione non ha trovato di meglio che allinearsi alla posizione degli Stati Uniti e, quindi, dell’Alleanza atlantica. Per carità, giusto stare dalla parte degli invasi contro gli invasori. Ma, in 20 mesi di guerra ai loro confini, i 27 potevano pure trovare l’autonomia per un’iniziativa di pace, invece di stare ad osservare, di volta in volta, i tentativi della Turchia o della Cina o di Papa Francesco, nel ruolo di ruota di scorta di tutti gli uomini di buona volontà ma smidollati che aspettano la manna della Provvidenza.

Adesso, la scena si ripete. Nella guerra tra Israele e Hamas, l’Europa non tocca palla; e neppure ci prova. Si contano a iosa le dichiarazioni di vicinanza a Israele e di preoccupazione per l’inasprirsi del conflitto con drammatiche conseguenze sui civili palestinesi, e le bandiere israeliane esposte o proiettate su istituzioni comunitarie o edifici pubblici; e c’è stato l’atto di coraggio (sic!) di chiedere che si faccia luce sul bombardamento dell’ospedale di Gaza. A Strasburgo, il Parlamento europeo chiede una “pausa umanitaria” delle ostilità per permettere l’arrivo di aiuti internazionali a Gaza.

Ma, a parte questi atti declaratori e/o simbolici, nulla, nada, rien, nichts, nothing, per dirla in alcune delle lingue dell’Ue: nisba. I 27 si dividono pure sugli aiuti ai palestinesi: troncarli?, o mantenere quelli umanitari? Linea che passa quando anche Washington condivide l’opportunità di dare viveri e medicinali a una popolazione assediata.

La guerra tra Israele e Hamas e la crisi in Medio Oriente conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che l’Unione europea politica non c’è: è un dato di fatto, un assioma a partire dal dato di fatto arci-noto che, in politica estera, i 27 devono decidere all’unanimità e non possono decidere a maggioranza. E, quindi, basta che un polacco o un ungherese alzi la mano per obiettare e tutto si arena.

Assistiamo, così, a pellegrinaggi in Israele in ordine sparso, per ribadire la solidarietà e suggerire, ma solo a mezza voce, la moderazione: il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il premier britannico Rishi Sunak sono stati i più solleciti, a livello di capi di governo. E vediamo la partecipazione delle istituzioni europee e di singoli leader, come l’italiana Giorgia Meloni, a vertice di pace promossi da altri – come l’incontro organizzato oggi dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi.

In Medio Oriente l’Europa è gregaria, pur essendone dirimpettaia nel Mediterraneo. Nel 1980, ci fu un atto di coraggio, con il riconoscimento al Vertice di Venezia dei diritto dei palestinesi a una loro ‘home land’. Ma da allora gli europei sono sempre stati visti, da israeliani e palestinesi, come quelli che forniscono assistenza e cooperazione, mentre le garanzie di sicurezza vengono, o non vengono, dagli Stati Uniti. E la passività europea, di fronte al mancato rispetto, per trent’anni, degli accordi che sanciscono il principio dei due Stati, ciascuno sicuro all’interno dei propri confini, non ha certo giovato alla credibilità dell’Ue nella Regione.

Per i 27, la nuova fase di un vecchio conflitto diventa anzi pretesto per un giro di vite ai controlli sull’immigrazione, con una serie di decisioni nazionali indubbiamente giustificate dal ripresentarsi della minaccia terroristica, che a più riprese nel XXI Secolo ha investito l’intero continente del pericolo terrorismo.
Di fatto, le misure segnano arretramenti, magari temporanei, nel processo di integrazione; e c’è l’impressione che a qualcuno non dispiaccia. La libera circolazione delle persone viene rallentata dai controlli interni su eventuali infiltrazioni terroristiche lungo le vie delle migrazioni suffragate dai casi di lupi solitari radicalizzatisi in Europa, come il tunisino che, sbarcato a Lampedusa nel 2011, spara a Bruxelles e uccide due svedesi 12 anni dopo. E la scia di attacchi e allarmi in Francia alimenta l’ansia.

Ci sono riunioni straordinarie dei leader dei 27 e dei ministri degli Esteri e dell’Interno. Ma, a parte l’impegno a rendere le frontiere più sicure e ad aumentare i rimpatri, da cui i controlli ai confini, decisioni concrete poche ed azioni concrete zero.

Italia e Slovenia sono, in ordine di tempo, gli ultimi degli 11 Paesi membri dell’area di Schengen, dove le frontiere interne sono abolite, ad averne deciso il ripristino temporaneo. In particolare, l’Italia reintroduce da oggi, sabato 21 ottobre, per un periodo di dieci giorni, i controlli ai confini con la Slovenia “a seguito della minaccia di azioni violente all’interno dell’Unione europea esacerbate dalla crisi in corso in Medio Oriente”. E riaffiora pure la tentazione, da cui persino il presidente Usa Joe Biden mette in guardia Israele, durante la sua visita di otto ore, di combattere il terrorismo sopprimendo alcune nostre libertà, come quella di esprimere il proprio pensiero e di manifestare a favore del popolo palestinese, che non può essere identificato con Hamas. Un modo di darla vinta ai terroristi dicendo di combatterli.

Certo, a rafforzare le percezioni d’insicurezza dei cittadini europei ci sono pure alcune “ingenuità” – il termine è della ministra svedese dell’Istruzione, la liberale Lotta Edholm – di alcuni Paesi: si scopre che, in Svezia, ex combattenti jihadisti sono stati ammessi a lavorare nei centri ricreativi delle scuole materne e nei servizi sociali. Ma la nostra sicurezza non si garantisce accettando che diritti e sicurezza altrui siano aboliti.

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