Cinema

Festival di Venezia, Origin di Ava DuVernay è un film di banale ordinarietà visiva e drammaturgica

di Davide Turrini

Lo sterminio nazista degli ebrei, la segregazione razziale negli Stati Uniti e quella dei dalit in India hanno una radice comune: sono il risultato di un sistema premeditato di caste. La provocazione politica del giorno la offre Origin, di Ava DuVernay, ultimo film a produzione statunitense in Concorso a Venezia 80. Scavalcando tutto il filone del materialismo storico marxista e adottando la solita decontestualizzante metodologia di studio nelle scienze storico sociali statunitensi, la regista di Selma mette in scena la genesi della pubblicazione del libro Caste: The origins of our discontents della giornalista e scrittrice afroamericana Isabel Wilkerson. Seguiamo così i tormenti, le indecisioni e l’impegno che la vera premio Pulitzer, qui interpretata da Aunjaune Ellis, vive nei mesi in cui affronta la preparazione del libro. A dire il vero Origin ha due bordoni narrativi e di senso ben visibili per scene madri e lacrimose in menù: i viaggi (in varie città degli Usa, Berlino e India) per raccogliere la documentazione necessaria al saggio e la vita privata dalla protagonista costellata nel giro di pochi mesi da lutti a profusione tra cui la morte del marito (un bianco di classe medio alta), l’anziana madre e l’amata cugina.

Anzi, a dirla tutta ce ne sarebbe un terzo e sono i flashback continui e intermittenti che accompagnano la voce fuori campo della Wilkerson quando rievoca fatti storici affrontati nel suo volume: le due coppie di antropologi che andarono a studiare a segregazione nel Mississippi negli anni trenta; una coppia fittizia tra un operaio tedesco e una ragazza ebrea nei primi anni del nazismo; i deportati nei campi di concentramento; il professor Ramji Ambdekar il giurista indiano che rinnegò l’induismo e fondò il movimento buddista dalit (anche se nel film un dato così sensibile e peculiare viene sistematicamente omesso). Insomma un caravanserraglio di dimensioni temporali e storiche, di personaggi del film (diventano un’infinità) frullate in una chiave espressiva convenzionale e a tratti didascalica. Non c’è uno sguardo di regia in Origin, e nel cinema della DuVernay tutto, che uno, se non l’urgenza da film a tesi. Quindi se a tratti Origin fornisce materiale intimista per abbondanti sonnellini (la parte centrale letteralmente si spegne), fa poi scattare anche qualche altolà sul solito calderone informativo privo di distinguo su senso e fine della storia. Perché DuVernay, e la Wilkerson, arrivano proprio a fare i conteggi dei morti, in una sorta di paradossale negazionismo a ritroso, sostenendo che sarebbero morte decine di milioni di africani mentre venivano deportati nei nascenti Stati Uniti per diventare schiavi. Un dato numerico ovviamente impossibile da verificare, piazzato lì una ventina di minuti dopo aver ricordato i sei milioni di ebrei cancellati dalla terra nemmeno cento anni fa che volenti o nolenti diventano uno screzio. Sul triplo carpiato del terzo termine di paragone, il sistema di caste indiano, lasciamo allo spettatore lo stridore dei freni in discesa. Cinematograficamente Origin è un film di banale ordinarietà visiva e drammaturgica, recitato con un pathos fuori misura, e abbarbicato al laccato esotismo degli sfondi geografico urbani d’oltreoceano.

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