Cinema

Venezia apre con il realismo magico di De Angelis, non si dica che Comandante è un film fascista

di Davide Turrini

Per favore non date a Comandante del film “fascista”. Il sommergibile Cappellini e il suo comandante Salvatore Todaro aprono in maniera sorprendente l’80esima edizione del Festival di Venezia. Là dove, in apertura, doveva esserci Luca Guadagnino con l’altamente erotico Challengers, ecco sbucare il terzo lungometraggio di Edoardo De Angelis su una vicenda eroica del Ventennio, quella del marinaio della Regia Marina Militare che con il suo vascello e i suoi valorosi uomini nell’ottobre del 1940 prima affondò una nave belga e poi salvò l’equipaggio superstite dalla morte in mare. Gli infingardi mormorii di certa critica “militante” stanno già scavando il fosso dove depositare un sontuoso Favino/Todaro e il realismo magico di Edoardo De Angelis. Noi invece ci infiliamo volentieri dentro ai claustrofobici, bollenti, fitti cunicoli ocra del 73 metri per 7 del solitario Cappellini partito da La Spezia nel settembre del ’39 per la missione “Ambush” (agguato) nell’Oceano Atlantico.

Comandante sembra iniziare con un vago sentore alla Terrence Malick. Nel post incidente in soggettiva del comandante Todar o- un Favino con pizzetto d’epoca, imbragato con cinghie sulla schiena, dannunziano in vestaglia, bottiglie morandiane sul tavolo – emergono le voice over della moglie di Todaro (Silvia D’Amico, alla maniera ramplinghiana da Portiere di Notte) che lo spinge senza successo alla pensione d’invalidità, poi quella dell’infermierina romagnola che evoca morte e dolore per i marinai in partenza, ma anche quella del marinaio corallaro napoletano che si sacrifica tagliando mine sottomarine sognando sirene. Una sorta di lirica sospenesione nel tempo della storia che fa da poetico contrappunto alla più materica missione militare subacquea. L’inquadratura armonica frontale con l’arrivo dell’equipaggio al tempo di marcia che canta Un’ora sola ti vorrei, il monologo per srotolare il carisma da condottiero deciso e un po’ folle di Todaro, poi l’immersione dei protagonisti dentro a quell’impianto scenografico immenso e incredibile (almeno per una produzione italiana – qui da 14 milioni di euro) che diventerà l’unico spazio scenico d’interni e da esterni (la sommità emersa dell’imbarcazione) per l’intero film.

I corpi pigiati, sudati, feriti, diventano un coro “italiano”, con i loro cognomi da richiamo disciplinato e antropologico-geografico, gruppo valoroso e coraggioso ad eseguire ciecamente gli ordini di Todaro. Quest’ultimo è figura centrale di quel realismo magico che De Angelis sa evocare in tutto il suo cinema, qui con ulteriore preziosa maestria visiva, tra ricerca d’atmosfera e singolarità romantica del particolare (il cibo della cambusa, la sua preparazione e declamazione del cuoco Giggino). Del resto Todaro/Favino è un ufficiale agli ordini sì di monarchia e fascismo, ma è anche un signore spiritista, mistico, orientaleggiante (da qui gli affabulanti flashback con vaticinio del sarto o il fatto che i marinai lo appellino scherzosamente “mago”), nonché nell’occasione dell’abbattimento della nave nemica, un uomo che rispetta la legge del mare e salva i naufraghi.

De Angelis pennella con audacia la dimensione espressiva e ritmica della spettacolarità dando sempre profondità alle singole inquadrature (letteralmente le riempie di attori o dettagli oltre la figura in primo piano) senza mai appiattire il racconto sulla tradizionale monodimensionalità aneddotica del biopic. Inoltre si concede la libertà formale di frammenti d’inquadratura o intere sequenze che lasciano la firma e rendono originale l’opera. Una su tutte: lo scurito campo lungo del sommergibile bombardato con le esplosioni giallorosse più piccine in lontananza e quasi in primo piano enormi e pacifiche meduse. Il filo politico del discorso, infine, vede Todaro imporre a voce alta la propria etica, il proprio senso di eroico sacrificio che mescola patriottismo tardo risorgimentale e umanesimo universale.

De Angelis e lo scrittore, qui sceneggiatore, Sandro Veronesi hanno peraltro l’intuizione di uscire da quella dicotomia novecentesca in cui è ancorata, da una parte e dell’altra la pedante infinita stressatura ideologica del nostro paese, recuperando le parole di Todaro stesso: perché ho salvato gli uomini in mare? Perché sono italiano. Favino ancora una volta pur infilandosi con scrupolosa e minimalista cura tra cinghie, dolcevita e canottiere del veneto Todaro (di cui ricalca la parlata come fosse nato in laguna) fa un mezzo passo di lato per permettere a Comandante con tutta la sua potente messa in scena di essere severamente dirompente ben oltre il significativo protagonista. Permetteteci infine di segnalare la maiuscola prova d’attore di Massimiliano Rossi (Marcon), spalla di Favino con cicatrice da urlo sulla tempia e uno sguardo da pirata, caratterista napoletanisssimo che però sembra aver appena bevuto un’ombretta al Bar Bepi, e lo scenografo Carmine Guarino che ha ricostruito come i più grandi di Hollywood il Cappellini 1 a 1 sfidando i limiti produttivi del cinema italiano. Se Comandante non viene candidato per l’Italia agli Oscar come miglior film straniero che stiamo più qui a scrivere? In sala dal 1 novembre.

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