Pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro di Andrea Cottone, 1993. Il romanzo delle stragi. Le bombe a Roma, Firenze e Milano. Un viaggio alla scoperta dei misteri che hanno cambiato l’Italia, edito da Aliberti. Nell’estratto viene raccontata la fase operativa della strage di via Palestro, a Milano, il 27 luglio del 1993. Nel libro l’autore mixa una mole gigantesca d’informazioni provenienti dagli atti giudiziari con una narrazione tipica del romanzo di formazione. La storia è narrata in prima persona da uno studente universitario alle prese con la sua tesi di laurea sulle stragi del 1993. Un escamotage narrativo che permette a Cottone d’indagare il nesso causa-effetto delle bombe di Firenze, Roma e Milano. In questo modo la storia delle stragi del ’93, in assoluto le meno raccontate della storia recente, diventa fruibile anche a un pubblico inesperto di vicende di mafia.

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Due dei sicari che si sono mossi su Roma, erano appena tornati proprio dal capoluogo lombardo. Perché il piano era in grande: far esplodere contemporaneamente tre ordigni nelle due città più grandi e importanti d’Italia. Sembrava un messaggio incrociato: se Roma era la capitale della politica, Milano era quella dell’economia e della finanza. Di più. Parliamo di chiese: alla politica e alla finanza, si affiancava un altro grande potere d’Italia, appunto quello della Chiesa. La mia testa cominciava ad affollarsi, facevo fatica a comprendere, a mettere ordine. E, mentre continuavo a distribuire le postazioni agli avventori, cercavo di concentrarmi sui fatti. Anche perché sulla strage di Milano sono riuscito a recuperare poche informazioni.

Di certo tutto parte dal solito autotrasportatore siciliano. Era sulla sua auto, stava andando verso Villabate, paese alle porte di Palermo, quando da dietro un’auto comincia a lampeggiare e lo fa accostare. Sono due sicari di Brancaccio e gli chiedono se conosce Arluno. Lui annuisce e viene immediatamente assoldato per un trasporto in quella località. Il camion viene caricato, oltre le solite balle c’erano anche dei “salsicciotti” che lui stesso aveva portato a Palermo da Castelvetrano. Verso le nove e trenta, l’autotrasportatore si fa trovare all’appuntamento convenuto con il killer di Brancaccio, lo stesso che aveva riportato in Sicilia dopo la strage di Firenze, quello che armeggiava con la radiolina alla ricerca di notizie. Sale a bordo anche lui con una borsa, delle pinze e un pezzo di miccia arrotolata, di colore nero. Certamente non prometteva bene. Arrivano ad Arluno il mattino successivo e si fermano nella piazzetta del paese, dove vengono raggiunti da una persona che li conduce in una stradina di campagna, dove scaricano il contenuto del camion. Effettuato lo scarico, il killer resta in loco, mentre l’autista si dirige verso Genova dove lascia il semirimorchio al porto. Imbarca la motrice sulla nave per Termini Imerese e si reca all’aeroporto, dove prende un aereo per Palermo. «Avevo troppa paura, volevo andare via. Diciamo che avevo fretta», racconterà successivamente. «A me mi colpì l’indifferenza, era tranquillo, non… io ero agitato perché, oltre che sapevo cos’era, sapevo che avrebbe successo un’altra strage. Speravo solo a Dio che non avrebbe fatto vittime». Da Roma è in arrivo Gaspare Spatuzza con un altro degli attentatori. Vengono prelevati alla stazione centrale e portati a incontrare l’altro killer che era arrivato con l’autotrasportatore: la telefonata fra questi e Spatuzza viene registrata dai tabulati telefonici. Salgono tutti in auto e fanno un lungo percorso, entrano in una stradina e si fermano a fianco di un corpo basso. È la loro base logistica, messa a disposizione da due fratelli col pedigree mafioso, probabilmente proprio ad Arluno. Nasce subito una discussione, gli attentati devono essere spostati di un giorno, proprio a causa della “Festa de’ noantri”, e questo avrebbe generato diversi problemi perché gli abituali abitanti della casa erano stati allontanati con una scusa. Ma il commando è stato inamovibile. Nel soggiorno di quella casa viene armata la bomba con miccia e detonatore. Nel tardo pomeriggio Spatuzza va a rubare l’auto che servirà per l’attentato, ancora una Fiat Uno, e la porta al covo. A quel punto le squadre si dividono: c’è chi resta a Milano e chi torna a Roma.

Uno dei sicari, come visto, tornato a Roma nel pomeriggio del giorno delle stragi di San Giovanni e del Velabro, sotto casa di “Saddam”, ha preso a parlare con l’altro che era tornato da Milano e gli ha chiesto se avesse lasciato tutto a posto. «Sì, tutto va bene, all’orario, non ci sono problemi», avrebbe risposto aggiungendo di aver dormito in un “pulciaio” e che gli hanno dato da mangiare pane e salame. «Stasera succedono cose eclatanti per tutta l’Italia», ha declamato il sicario a “Saddam”. Ma è mancata la sincronia e chi ha operato a Milano ha fatto un errore non da poco. «Parlavano fra di loro, dopo lo scoppio, che è scoppiata, l’hanno fatta scoppiare un’o-ra prima o un’ora e mezza… un’ora prima o qualcosa del genere. Doveva scoppiare tutto a mezzanotte, sia a Roma che Milano. E non doveva scoppiare lì dove è scoppiato, bensì a circa centocinquanta metri di distanza. Quelle erano cose che discutevano loro», ha poi rivelato Scarano. Fatto sta che prima o dopo, più o meno distante, a Milano sono scoppiati novanta chili di esplosivo.

Una pattuglia dei vigili urbani, in via Palestro, viene fermata da alcuni passanti che fanno notare un’auto dalla quale esce del fumo. E, in effetti, i vigili si accorgono di un’auto posteggiata sul lato sinistro della strada, di fronte al Padiglione di Arte Contemporanea. Dentro l’auto una nuvola di fumo biancastro fuoriusciva da una fessura di uno dei finestrini lasciato leggermente aperto. Vengono chiamati immediatamente i vigili del fuoco che giungono quattro minuti dopo. I pompieri aprono lo sportello e il fumo si dilegua ma all’interno non pareva esserci in atto alcun processo di combustione. Aprono, dunque, il portabagagli e notano un involucro di grosse dimensioni che occupa buona parte del baule. Era avvolto fittamente da un nastro per imballaggio e da uno dei lati fuoriuscivano alcuni fili che si perdevano nell’abitacolo. Uno dei vigili capisce e ordina l’evacuazione immediata della zona. I vigili urbani si allontanano verso corso Venezia, all’incrocio fra via Palestro e via Marina; i pompieri si scostano di una ventina di metri e cominciano a svolgere il naspo, un particolare idrante.

Una chiamata dalla centrale della polizia municipale chiede ai vigili in servizio di avvicinarsi al mezzo per prendere la targa. Così fece Alessandro Ferrari, mentre i pompieri Stefano Picerno, Sergio Pasotto e Carlo La Catena, si avvicinavano anche loro forse con l’intenzione di passare dall’altro lato della strada, dove si trovavano i vigili urbani. Proprio in quel momento l’auto esplode. I quattro muoiono sul colpo. Sul lato opposto della strada, nei giardini pubblici di Villa Reale, viene trovato un cittadino marocchino agonizzante. In parecchi rimangono feriti. Paolo ha perso definitivamente il venti per cento dell’udito oltre a trovarsi tumefazioni in tutto il corpo; Antonio ha subito una duplice frattura di tibia e perone, lo sfondamento dei timpani e altre lesioni per cui rimane convalescente per nove mesi; Antonio perde anche lui, ma non in via definitiva, parte dell’udito oltre riportare lacerazioni agli arti inferiori e alla spalla; Massimo ha lesioni varie; Andrea si ferisce a una gamba durante le operazioni di soccorso. Sono tutti vigili del fuoco intervenuti in via Palestro. Ma anche Luigi, un passante rimasto a curiosare, ha subito una grave ferita alla spalla.

L’esplosione sconquassa la strada, un distributore di benzina, il sistema di illuminazione pubblica e diverse auto parcheggiate. L’onda d’urto rompe i vetri in un raggio di duetrecento metri, distruggendo anche i mobili degli appartamenti. Ma, ancor più grave, l’esplosione investe la condotta del gas posta sotto la strada: per ore le fiamme si sono levate sul cielo di Milano senza che i vigili del fuoco, giunti in forze, riuscissero a domarle. Poi, verso le quattro e trenta, esplode una sacca di gas formatasi proprio sotto al Pac. La seconda esplosione lo sventra completamente, una trentina di opere presenti all’interno si danneggiano e altre vanno irrimediabilmente distrutte. Altri danni si verificarono alla Villa Reale, sede della Galleria d’Arte Moderna, con importanti opere dell’Ottocento (Hayez, Pelizza da Volpedo, Segan- tini, Mosè Bianchi, ecc). Riportarono danni un gesso del Canova e alcune opere presenti in magazzino. Danni, non gravi, riportarono infine il Museo di Scienze Naturali in corso Venezia e la chiesa di S. Bartolomeo, in via Moscova.

A portare l’auto nel luogo dell’esplosione sarebbe stata una donna, bionda, slanciata con gonna nera e camicetta di pizzo. Testimoni l’hanno vista allontanarsi in maniera decisa dall’auto dalla quale cominciava a uscire un filo di fumo. Un cittadino milanese, in particolare, quella sera era passato due volte dal pac con un amico. La prima volta aveva visto la Fiat Uno di fronte al distributore, sul lato opposto al Padiglione d’arte contemporanea, parcheggiata contromano. Aveva attirato la sua attenzione questa bella donna che aveva poggiato una mano sulla portiera, dato un’occhiata all’interno per poi chiudere l’auto e andare via a piedi. Con lei ci sarebbe stato anche un uomo, seduto alla guida. Gli investigatori hanno trovato, in una perquisizione nel paese di Alcamo, inserita dentro un libro, la foto di una donna che corrisponde alla descrizione, la sua identità è ancora oggi ignota.

In pratica la bomba di via Palestro non era destinata al Pac, ma a Villa Reale, sede della Galleria d’arte moderna. Era stata piazzata centocinquanta metri prima del previsto ed è esplosa più di un’ora prima del previsto. Hanno operato Spatuzza e i due killer di Brancaccio poi tornati a Roma per “completare l’opera”.

Avevo finito il turno al lavoro, i miei pensieri erano foschi. Come si poteva essere così feroci? Ancor più mi faceva incazzare che a perire fossero persone che stavano facendo il loro lavoro a favore della collettività, un’ulteriore brutalità che si somma al resto. E una domanda era fissa nella mia testa come un chiodo: ma perché? E, in fondo, era anche l’unica indicazione avuta dal professorone: il nesso causa-effetto. Quindi, perché? Camminavo stancamente ma ero già arrivato a casa, magari i miei coinquilini mi avrebbero distratto con le loro storie. Anche se avevo ancora da fare, nelle menti criminali di queste persone c’era infatti la madre di tutti gli attentati.

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