A trent’anni dalle stragi di mafia, quelle del ’92 e quelle del ’93, cosa dovremmo raccontare nelle scuole ai ragazzi ed alle ragazze che per ragioni anagrafiche nulla hanno a che fare con quel periodo storico? Una domanda cruciale tanto più oggi, anniversario della morte di Rita Atria, giovanissima testimone di giustizia alla quale dobbiamo una lezione fondamentale di ribellione culturale a Cosa Nostra. Una domanda che ovviamente non riguarda soltanto il “cosa” ed il “come” ma anche il “chi”, cioè la credibilità di coloro che ai giovani si rivolgono. Quale credibilità ha, per esempio, un ministro come Salvini che, in perfetta continuità culturale con le nefaste parole dell’allora ministro Lunardi (“con la mafia bisogna convivere”) e nel solco del più scellerato negazionismo normalizzatore, pur di evadere le critiche puntuali sul progetto “Ponte-sullo-stretto” avanzate da don Ciotti, preferisca offendere la persona, definendola “volgare, superficiale ed ignorante”? Bene fa don Ciotti, scrivendo oggi su La Stampa in ricordo delle bombe del ’93 a Roma, a sollecitare “una bonifica delle parole, un ritorno alla parola che vincola, convalidata dalle azioni”.

Da queste questioni pare prendere le mosse anche l’intervista che Costantino Visconti, eccellente penalista, ha rilasciato ad Ermes Antonucci de Il Foglio qualche giorno fa ed alla quale decine di giovani hanno già reagito. Alcune delle risposte di Visconti sono talmente condivisibili che il rischio è quello di farsi prendere per mano dall’intero ragionamento, confidando che a tante buone premesse non possano che seguire altrettante buone conclusioni.

Sarebbe infatti infondato e depistante, come sostiene Visconti, rappresentare alle platee studentesche l’esistenza oggi in Italia di un super potere mafioso che tutto controlla e condiziona, un potere impunito ed imbattibile, per niente scalfito da quarant’anni di processi. Una simile rappresentazione oltre che sbagliata, sarebbe una offesa a quanti hanno scritto una storia differente, pagando spesso un prezzo altissimo. Una storia fatta di successi clamorosi che hanno sbaragliato potenti organizzazioni mafiose, a cominciare dalla Cosa Nostra a guida corleonese, letteralmente spazzata via dalla reazione dello Stato. Sarebbe altrettanto scorretto e pericoloso assumere quella che Visconti definisce prospettiva nichilista, per la quale ogni successo dello Stato sul fronte delle mafie sarebbe in realtà una manifestazione abilmente truccata di un pervasivo complotto “giudaico-massonico-mafioso”. Nulla di più ingeneroso verso le capacità professionali e le granitiche motivazioni che animano la gran parte degli addetti ai lavori istituzionali, che anzi rappresentano un punto di riferimento a livello mondiale nella prevenzione e nella repressione del crimine mafioso.

Come infine dissentire quando Visconti afferma che la norma penale abbia probabilmente raggiunto il massimo della sua espansività e che per tanto la sfida non possa giocarsi nell’ampliarne ulteriormente il perimetro di azione, ma debba stare nel potenziare l’investimento pubblico sul piano culturale e dell’educazione? Sono infatti talmente frequenti e desolanti gli episodi che raccontano della fascinazione irresistibile che il modo mafioso di stare al mondo, fatto di branchi che proteggono e clientele che gratificano, esercita su giovani e meno giovani, che non c’è davvero un minuto da perdere.

E tuttavia.

Avremmo anche il dovere di raccontare a quegli stessi ragazzi ed a quelle stesse ragazze che se il prezzo di quei risultati eccellenti è stato così alto da culminare nella stagione delle stragi di mafia, è proprio perché per decenni le mafie hanno beneficiato di complicità importanti all’interno delle Istituzioni. Avremmo il dovere di raccontare loro di tutte quelle volte in cui gli eroi civili della guerra alle mafie dovettero denunciare di essere stati abbandonati dallo Stato, di essere stati lasciati senza strumenti, senza risorse, sovra esposti, delegittimati, dileggiati, resi insomma dei bersagli facili per il colpo mafioso. Dovremmo raccontare di quei “Giuda” a cui fece riferimento Borsellino, trattenendo a stento la rabbia e indicando proprio nella magistratura la più grave colpa dell’isolamento di Giovanni Falcone. Certo dovremmo raccontare che quasi (!) mai i “Giuda” sono stati condannati sul piano penale, ma aggiungeremmo che l’assenza delle condanne, lungi dal modificare il quadro nel quale si intrecciarono volontà mafiose e politiche che riverbera i suoi effetti tutt’oggi, esalti semmai il valore del lavoro di quanti, pur sapendo di inoltrarsi in un territorio scivoloso, hanno cercato di dare un volto a quella potenza latente che ha fatto da incubatore alla forza delle mafie. Altro che non invitare più nelle scuole un magistrato come Nino Di Matteo, sarebbe come dire di non invitare più un magistrato come Gian Carlo Caselli, “reo” di aver portato sul banco degli imputati Giulio Andreotti.

Avremmo il dovere di raccontare che se quei risultati brillanti sono stati raggiunti è proprio perché a partire dal 1982 lo Stato si è finalmente e faticosamente (quasi obtorto collo!) dotato di quell’apparato di norme penali e non penali (penso soprattutto agli strumenti di prevenzione amministrativa e giudiziaria in materia di Enti locali e patrimoni), che se ha raggiunto il massimo della espansività, non ha però cessato di essere attualmente necessario. Al contrario: è proprio la perdurante persistenza di questo armamentario che impedisce ai mafiosi di rialzare la testa, tornando ad essere eversivi per la democrazia come lo possono essere i tarli per un armadio. Infine, sanno i raffinati giuristi e dovremmo spiegare alle scolaresche, che c’è modo e modo per innestare la marcia indietro e che ce n’è di quelli che hanno il pregio di non apparire neppure come degli arretramenti, ma di sembrare al contrario dei luminosi avanzamenti e che uno di essi, rassicurante nel discorso penalistico, porta per nome “tipizzazione”.

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