Matteo Messina Denaro non si presenta al processo in cui è imputato per le stragi del 1992, come ha sempre fatto da quando è stato arrestato. Ma la sua nuova legale d’ufficio protesta: “Se devo essere sincera se oggi Matteo Messina Denaro fosse stato presente lo avrei apprezzato. Chi meglio di lui avrebbe potuto darmi ulteriori spunti e suggerimenti in ordine alla mia discussione? Questo è indubbio. Ha rinunciato, è una sua scelta e la rispetto comunque”, dice Adriana Vella, avvocata d’ufficio del boss di Castelvetrano. Una frase pronunciata durante una pausa dell’arringa celebrata dalla legale a processo d’appello sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, che si celebra nell’aula bunker del carcere di Caltanissetta.”E’ stato molto difficile preparare la difesa – ha aggiunto il legale – perché ho dovuto studiare la sentenza, molti atti processuali e mi sono dovuta confrontare anche con sentenze precedenti che sono state acquisite su fatti in cui altri giudici si sono già pronunciati”. In primo grado Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo. Oggi l’avvocata Vella ha chiesto per lui l’assoluzione dall’accusa di aver participato all’eliminazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

“Che effetto mia fa difendere un capomafia come Matteo Messina Denaro? L’ho sempre detto, io sono difensore d’ufficio di un imputato. Per mia abitudine sgombro sempre le carte da quello che posso recepire dall’esterno, dai giornalisti. Io devo conoscere le carte processuali, non conosco le carte degli altri processi in cui è imputato”, ha detto l’avvocata Vella spiegando di non aver parlato col suo assistito. “Non ho mai sentito il mio assistito Messina Denaro in questi due mesi da quando sono stata nominata legale d’ufficio. Mi sono dovuta dedicare a questo processo per svolgere nel migliore dei modi il mio lavoro, a tutela del diritto di difesa che spetta a chiunque. E’ un processo impegnativo e nemmeno due mesi di preparazione sono stati pochissimi”.

Vella ha preso il posto Calogero Montante, avvocato d’ufficio che era stato dispensato dalla corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. Appena nominato, infatti, Montante aveva rinunciato all’incarico facendo presente che in passato era stato difensore d’ufficio del falso pentito Vincenzo Scarantino, nel processo Borsellino Quater e nel processo d’appello. La corte però lo aveva confermato. Successivamente l’avvocato, che era stato nominato in seguito alla rinuncia della nipote del boss Lorenza Guttadauro, aveva ricevuto pesanti minacce, anche di morte: “Perché non hai difeso Matteo? Sono un suo amico. Vuoi morire?”. Al posto di Montante è stata dunque nominata l’avvocata Vella. Che ha chiesto l’assoluzione del boss di Castelvetrano cercando di confutare tutta una serie di risultanze emerse dopo il lavoro investigativo della procura di Caltanissetta, guidata all’epoca da Gabriele Paci. “La veste di Matteo Messina Denaro come reggente della provincia trapanese, così come sostenuto nella sentenza di primo grado, è smentita emblematicamente anche dal contenuto delle intercettazioni effettuate nel carcere di Opera durante un colloquio tra Salvatore Riina e tale Lorusso, pregiudicato pugliese”, sostiene l’avvocata. “Nelle parole di Riina – prosegue la legale – il padre dell’imputato viene individuato dal capo indiscusso dell’organizzazione quale capo mandamento e non capo provincia. ‘Ora se ci fosse suo padre buonanima, perché il padre era una brava persona, una bella persona’ dice Riina durante quel colloquio muovendo al contempo un’aspra critica nei confronti dell’imputato per le scelte strategiche fatte da quest’ultimo, ben lontane dalle logiche stragiste, ossia quello di dedicarsi ai profitti derivanti dal mercato dell’eolico”.

La difesa di Messina Denaro ha insistito più volte su questo punto: nel 1992, l’anno delle stragi, il capo della famiglia di Castelvetrano era ancora Francesco Messina Denaro. “La presunta malattia del padre di Matteo Messina Denaro non gli impedì di avere un ruolo fondamentale nel momento in cui venne deliberato il piano stragista. E’ da escludersi che la presunta malattia del padre dell’imputato fosse talmente invalidante – ha sostenuto la legale – da rendere necessaria una sostituzione o comunque impedire allo stesso non soltanto di ricevere l’informativa ma, altresì, di prestare il consenso. Fondamentali a tal riguardo sono state le dichiarazioni di Francesco Geraci, l’unico al quale l’imputato, in ragione del sentimento di sincera amicizia esistente tra i due avrebbe confidato la malattia del padre. Geraci affermò di avere accompagnato al policlinico il padre di Messina Denaro nel periodo prima delle stragi, che ‘stava male però camminava’. Ricordo inoltre – ha continuato l’avvocato Vella – la nota citazione del Brusca, il quale ha più volte affermato che la carica di capo mandamento viene mantenuta vita natural durante. Negli stessi termini il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi aveva ribadito che la carica di capo mandamento si conserva fino a quando la persona, seppur in agonia, ‘respira nel letto”.

L’avvocata ha pure tentato di riscrivere la storia della missione romana di Cosa nostra quando Messina Denaro e Giuseppe Graviano vennero inviati da Riina nella capitale: a capo di una squadra di killer doveva uccidere Giovanni Falcone. “Nella cosiddetta missione romana per colpire personaggi di rilievo, quali Giovanni Falcone, il ministro Martelli, Maurizio Costanzo e Andrea Barbato, Matteo Messina Denaro recepì l’ordine impartiti da Totò Riina come un mero soldato”, ha detto la legale. “I soggetti convocati da Riina – ha continuato – come emerge dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, si limitarono a recepire l’ordine impartito dal capo di Cosa nostra, ovvero quello di attuare propositi criminosi mai realizzati. E che l’imputato non conoscesse i successivi e nuovi sviluppi del piano decisi dai vertici di Cosa Nostra è reso evidente, fra l’altro, dalla circostanza, riferita da Sinacori, che tutti i partecipanti alla ‘trasfertà furono invitati da Riina a tornare in Sicilia ‘perché qui abbiamo trovato cose più grossè. Tra l’altro, tale espressione utilizzata da Riina – aggiunge il penalista – non viene nemmeno compresa sul momento da Sinacori, ma solo successivamente alla realizzazione della strage di Capaci. Dunque la circostanza che Riina, senza alcun preavviso, informi i soggetti andati a Roma che non avevano più ragione di continuare la loro attività nella Capitale, senza fornire spiegazione su quali erano ‘queste cose più grosse‘ in territorio siciliano dimostra, uno che il piano stragista aveva assunto connotati e finalità ben diverse, e due che di questa nuova connotazione e finalità l’imputato non aveva contezza alcuna”.

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